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Al Tour de France l’ennesima conferma che il ciclismo italiano non esiste più

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Non esistiamo più, inutile girarci attorno. Inutile aggrapparsi alle melense scuse di facciata. Lasciamo ad altri il patetico tentativo di aggrapparsi sugli specchi. Il ciclismo italiano è scomparso dalle grandi corse a tappe: ad oggi non ha né presente né futuro. Quando iniziano Giro, Tour o Vuelta, le possibilità che un nostro portacolori possa non solo vincere, ma anche solo salire sul podio sono pari a zero.

Si può obiettare che abbiamo Filippo Ganna: nulla da dire, è un’eccellenza straordinaria per le cronometro, tuttavia l’analisi in questione vuole concentrarsi esclusivamente sulle corse di tre settimane. Non che il Bel Paese se la passi meglio nelle Classiche, intendiamoci. Ma questo è un altro discorso…

Per anni ci siamo illusi di continuare ad essere una nazione di riferimento per i Grandi Giri, quando in realtà i primi barlumi della pochezza attuale venivano insabbiati dalle imprese di Vincenzo Nibali. Quanti italiani sono emersi dal 2010 in avanti? Due: il già citato Squalo e Fabio Aru. Il Cavaliere dei Quattro Mori sembrava l’erede designato del fuoriclasse di Messina, tuttavia sappiamo tutti com’è finita: oggi il sardo, a soli 32 anni, è già un ex-corridore dal termine della passata stagione.

I trionfi di Nibali avrebbero dovuto consentire di lavorare con calma sui vivai, ma non è stato fatto. E’ vero che un Pantani, un Basso o un Nibali non nascono tutti i giorni, ci mancherebbe. Eppure ormai non nascono neppure più i Savoldelli, i Simoni, i Gotti o i Garzelli che invece abbondavano tra gli anni ’90 e ’00. Manca tutto: sia scalatori puri sia passisti scalatori.

L’ultimo Giro d’Italia è stato emblematico di cosa ci attende nel futuro prossimo. A reggere la carretta (e si intende non per vincere il Trofeo senza fine o per salire sul podio, ma per un piazzamento dignitoso) ci hanno pensato il solito Nibali e Domenico Pozzovivo, rispettivamente 37 e 39 anni: il siciliano ha concluso quarto, il lucano ottavo. Gli altri italiani? 15° Lorenzo Fortunato ad oltre mezz’ora, tutti gli altri con distacchi superiori all’ora e mezza…Avete capito bene, più di 90 minuti.

Al Tour de France le speranze per un buon piazzamento erano riposte in Damiano Caruso, ma anche in questo caso va estirpato un errore di fondo: il secondo posto del siciliano al Giro d’Italia 2021 va considerato una meravigliosa eccezione, non di certo la normalità per un grande professionista che per un’intera carriera si è messo a disposizione dei compagni e che, quando ne ha avuto l’opportunità, ha sfruttato al meglio l’occasione. Sarebbe ingiusto affibbiare a Caruso il titolo di Salvatore della Patria, anche perché non si tratta di certo di un corridore di primo pelo, essendo ormai prossimo alle 35 primavere…

Il futuro sarà migliore, le cose cambieranno a breve? Temiamo di no, non bisogna illudersi o credere alle favole. L’ultimo Giro d’Italia U23 ha ulteriormente ribadito come tra i nostri giovani atleti ed i coetanei stranieri vi sia un abisso. Il migliore in classifica generale è risultato Davide Piganzoli, 10° a poco più di 10 minuti dal vincitore britannico Leo Hayter. Tradotto: ad oggi non vi è alcun Messia in arrivo dalle categorie giovanili che possa invertire la tendenza.

Si parla bene di Antonio Tiberi, ma sinora sarebbe quantomeno prematuro considerarlo un potenziale corridore da corse a tappe; Gianni Savio proverà a rilanciare Andrea Piccolo alla Drone-Hopper, nella speranza che possa valorizzare un ragazzo di sicuro talento; la lista degli incompiuti è poi molto lunga, di corridori che sembravano in rampa di lancio (con tanto di podi al Tour de l’Avenir) e poi rivelatisi comparse o poco più nel mondo dei professionisti.

Il ciclismo italiano nelle corse a tappe non esiste più per tanti motivi. E’ innegabile un calo di praticanti (anche e soprattutto legato ai timori dei genitori, ma come dargli torto con i continui incidenti che si verificano sulle nostre strade?), le società utilizzano metodi arcaici, non al passo con i tempi, con il risultato che troppo spesso i giovani vengono spremuti ed arrivano saturi al momento del gran salto tra i professionisti. Siamo poi sicuri che i percorsi delle gare giovanili siano idonei a valorizzare scalatori di prospettiva? O forse si privilegiano sempre e solo passisti o velocisti che garantiscano quelle vittorie utili per abbellire l’orticello, magari portando a scartare ragazzi che avrebbero bisogno solo di più tempo per maturare? I motivi sono tanti, vi si potrebbe scrivere un libro. Ma a nostro avviso quello della mancanza di una squadra italiana nel World Tour è un alibi che sinceramente ha stancato. La Slovenia ha forse una squadra? E la Colombia? Un Pogacar fa gola a tutti, a prescindere dalla nazionalità. Se hai talento, emergi, non conta il passaporto; in caso contrario sei destinato ad una carriera di rincalzo. E comunque, anche se esistesse una compagine nostrana nel World Tour, avrebbe come obiettivo principale quello di vincere: siamo sicuri che sarebbe in grado di farlo con gli italiani? O in fondo sarebbe costretta a ripiegare sugli stranieri?

Il ciclismo italiano non esiste più. Sta diventando purtroppo una triste consuetudine, destinata a durare per anni, se non decenni. Eppure fatichiamo ad accettarlo o a rassegnarci. Non può diventare la normalità non avere alcun azzurro in top20 alla Grande Boucle, come con ogni probabilità accadrà nell’edizione in corso. Gli strumenti per intervenire non mancherebbero. Ma siamo sicuri che, a chi di dovere, interessi per davvero mutare l’attuale status quo? La risposta è la causa principale della miserabile situazione attuale.

Foto: Lapresse

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