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Editoriali
Perché l’Italia è la n.1 dello sport: genetica, le radici dei Romani e del Medioevo, estro e territorio
La combo estiva Roma – Monaco di Baviera, trionfale per i colori italiani, ha certificato per l’ennesima volta una garanzia che ormai da oltre cento anni caratterizza il Bel Paese: pochissime nazioni al mondo (le altre tutte con una popolazione maggiore rispetto alla nostra, va detto…) possono contare in ambito sportivo su un eclettismo, una poliedricità vincente superiore a quella italica.
Almanacchi e albi d’oro ci ricordano che eccelliamo quando nuotiamo, corriamo, pedaliamo, saltiamo, combattiamo, sciamo, remiamo, pagaiamo, solleviamo bilancieri, volteggiamo nell’aria o sul ghiaccio; siamo ottimi marciatori, tiratori, schermidori, tuffatori, bocciatori, pattinatori, piloti e costruttori dei bolidi loro necessari, bravi dunque quando c’è da essere veloci, agili, ma anche forti o estremamente precisi. Sappiamo governare le acque e le nevi, giocandocela alla pari da sempre con gli altri abitanti della Terra, sia a livello individuale sia come squadra, a prescindere dal tipo di palla in gioco.
Lo dimostra a pieno anche la sommatoria incrociata dei medaglieri storici dei Giochi olimpici estivi (dal 1900, per l’Italia), invernali (1924) e dei World Games, la poco “pubblicizzata” competizione multisportiva a cadenza quadriennale che a partire dal 1981 assegna allori universali in quelle pratiche sportive non inserite nel programma delle Olimpiadi o che di queste ne hanno rappresentato l’anticamera o il parallelo contenitore alternativo.
Nel complesso secolare di queste tre kermesse planetarie onnicomprensive (senza considerare le singole manifestazioni iridate, le quali ricalcherebbero fedelmente o addirittura migliorerebbero statistiche, considerazioni, graduatorie, valutazioni di cui sopra e sotto), siamo ai vertici assoluti dello Sport a 360° assieme a superpotenze del calibro di Stati Uniti, Russia, Cina, Germania, Gran Bretagna e Francia, pur pagando nei loro confronti un gap demografico importante. A tal proposito, nella top-20 combinata delle medaglie olimpiche conquistate dal 1896 ad oggi, solo Norvegia, Svezia, Paesi Bassi, Finlandia, Ungheria, Australia e Canada possono vantare un miglior rapporto popolazione / metalli in forziere rispetto all’Italia, rimanendo comunque nettamente dietro nel totale generale.
D’altronde, a conferma di quanto appena enunciato, non sono rimaste poi così tante le discipline sportive attualmente presenti nei calendari a cinque cerchi nelle quali il tricolore non è mai salito sul podio: salto con gli sci, hockey su ghiaccio e su prato, freestyle, arrampicata, badminton, bmx, golf, nuoto artistico (!), pallamano, rugby a 7, skateboard, surf, tennistavolo, triathlon.
Ma può essere giustificata in maniera “scientifica” questa atavica versatilità, questa sorta di polimorfismo che pare essere innestato nel DNA della stirpe italica da millenni? Non solo quando si tratta di competere. Attraverso l’illustrazione di cinque punti storico-geografico-genetici, abbiamo provato a spiegare un simile fenomeno, per noi dolcissimo e oggetto di grande orgoglio, avanzando delle plausibili motivazioni con l’utilizzo di “fattori documentati”. E con la speranza di risultare attendibili e credibili il più possibile.
LO STORICO “MIX GENETICO” DELLA PENISOLA ITALICA
Partiamo dagli antichi Romani, che piacciano o no, i padri indiscussi della società civile dello Stivale a noi più caro, nonché i nostri progenitori territoriali. Perché dall’inizio della loro epopea storica (a partire dall’VIII secolo a.C.) e dai variegatissimi sviluppi legati alla crescita esponenziale dei confini della Città Eterna, poi potente Impero multietnico come pochi, nascerà una vaga idea di unità/identità italica. Lo sapevate che, fisicamente, i Romani “puri” non erano un granché? Essi, agli albori, presentavano una struttura fisica tutt’altro che prestante, anzi erano piuttosto bassi, con medie attorno ai 160 cm, e nemmeno feroci come gli aitanti barbari del centro-nord Europa. Quindi, gli “italiani” delle origini non avrebbero certo potuto primeggiare, in quanto a forza fisica, al cospetto dei contemporanei Uomini del Nord… Il DNA degli antichi Romani, parallelamente ad un rapidissimo progresso alimentare, si è modificato nei secoli proprio grazie alla fusione con le caratteristiche genetiche peculiari dei tanti popoli “diversi” con cui sono entrati in contatto dentro e fuori la Penisola, seguendo l’evoluzione delle fasi storiche che hanno segnato la vita e la crescita dell’Urbe, che al suo culmine raggiunse per prima al mondo la popolazione di un milione di abitanti con il titolo di Capitale di un Impero capace di legare a sé tre continenti e centinaia di etnie. Fu così che il mingherlino cittadino italico medio divenne l’attuale italiano fisicamente molto diversificato: un “mix genetico” estremamente proficuo iniziato con l’incontro (anche organico…) con i prestanti Celti, con i Longobardi, ma anche con i nordafricani. Senza dimenticare l’antico mescolamento con i cugini ellenici, successivamente allargatosi ai popoli balcanici in senso lato; poi le civiltà mediorientali, i barbari del profondo Est europeo, gli Arabi e ancora Svevi, Normanni, Angioini, Aragonesi, eccetera eccetera. Fino ad arrivare agli ultimi contatti conflittuali con i due vicini d’oltralpe che, soprattutto nel caso degli invasori asburgici, hanno contribuito in ultima istanza a sigillare la conclamata crescita anche fisica degli abitanti della Penisola, beneficiari sempre più costantemente di un complessivo miglioramento delle condizioni medico-sanitarie-alimentari dopo il nefasto XVII secolo. Incontri, scontri e fusioni genetiche che hanno apportato evidenti vantaggi “strutturali” agli italiani, da qualche decennio alle prese con altre ondate, ben differenti, di accorpamenti sociogenetici i quali stanno già facendo vedere i loro preziosi frutti in ambito sportivo. Una prospettiva nuova, una convivenza che sta finalmente diventando condivisione in nome di una società diversa nel senso arricchente del termine, dove la diversità viene considerata una ricchezza, un plusvalore e non un handicap, un ostacolo da evitare. Tra l’altro, colossi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Francia hanno avviato molto prima di noi questo processo, si tratta solo di raggiungerle…
UN’IMPAREGGIABILE, RADICATA LARGHEZZA DI ORIZZONTI
“…un popolo di santi, poeti e navigatori”… E di sportivi vincenti!
Al di là delle innumerevoli invasioni/convivenze, all’attivo e al passivo, che hanno caratterizzato irreversibilmente la storia della nostra Penisola, gli “italiani” hanno sempre avuto il privilegio di conoscere a fondo tantissime civiltà diverse dalla loro. Talvolta in maniera conflittuale, ma tante altre volte no. Punto di partenza, ancora Roma: i primi contatti con gli altri popoli italici e con quelli, grecizzanti soprattutto, del ricco (in ogni senso) bacino del Mediterraneo; poi l’allargamento di confini e di vedute verso tutte le direttrici geografiche, indistintamente. La lunga età imperiale ci ha infine spinti a conoscere, apprezzare e importare modi di pensare e vivere, formae mentis e modi vivendi fino ad allora inimmaginabili. Un enorme ed impareggiabile arricchimento culturale, amministrativo, tecnico, tecnologico, umano che nessun altro al mondo ha toccato con mano prima di noi. Larghezza di orizzonti che ha avuto la sua definitiva esplosione a partire dal 1400 (anche se, duecento anni prima, un certo Marco Polo si era già spinto via terra fino in Estremo Oriente…), grazie alle magistrali, intuitive abilità dei nostri navigatori/esploratori, senza alcun dubbio fra quelli più geniali, pragmatici, poliedrici, appunto, che la storia universale abbia mai avuto. Vero, non siamo stati i primi, ma tra i massimi promotori sì; non siamo stati i migliori, ma tra i più attivi e lungimiranti; non siamo stati gli unici, ma sicuramente fra quelli che più hanno “rubato” segreti, novità, conoscenze, migliorie o, come diremmo oggi, know how. In ogni sfaccettatura della quotidianità.
UN TERRITORIO VARIEGATO
Storia, etnologia e geografia. Umana, politica e fisica: isole, coste, mare, scogliere, montagne, colline, valli, pianure; laghi, fiumi, stagni, rapide; clima freddo, con neve e ghiacciai, ma anche caldo afoso, con perdurante assenza di precipitazioni e terreni aridi, quindi, la necessità di adattarsi a diversi ambienti naturali. È risaputo, lo Stivale possiede una varietà territoriale, climatica e paesaggistica notevole che contribuisce, assieme a tanti altri fattori antropici, a rendere il nostro Paese “Bel” – e ambìto dai più – come pochi altri su questo pianeta. È però altrettanto risaputo che, nel terzo Millennio, quasi tutti gli scenari sportivi sono ricreabili artificialmente e, di conseguenza, tutte le nazioni/federazioni sufficientemente abbienti possono oggi mettere i propri atleti nelle condizioni di formarsi e poi competere con profitto nelle rispettive discipline, anche in quelle non “di tradizione”. Inoltre, viviamo ormai nel cosiddetto Villaggio Globale dove le distanze in senso lato sono quasi sparite del tutto e dove non è più strano che un africano pattini sul ghiaccio o uno svizzero veleggi o un giamaicano salga su un bob… Tuttavia, l’Italia sportiva ha avuto il grande vantaggio di poter disporre di una naturale ampiezza ambientale per molto tempo, in modo da poter creare delle vere e proprie Scuole in modo quasi spontaneo, che ovviamente hanno potuto radicarsi o addirittura evolversi esponenzialmente nei decenni creando autentiche, profonde “tradizioni”, già a partire dall’inizio del Novecento.
GLI SPORT E I LUDI NELL’ANTICHITÀ, LE GIOSTRE MEDIEVALI E LA TRADIZIONE DEL DUELLO…
Nella Penisola italica lo Sport si pratica da tempi immemori. E pensare che prima della conquista della Grecia, cioè prima che la civiltà ellenistica influenzasse in maniera decisiva quella romana, le pratiche sportive dei Greci erano considerate esibizioni immorali prive di quelle finalità pratiche che davano senso all’addestramento ginnico-militare per l’esercizio della guerra. Questo perché la concezione dello Sport nell’antica Roma non rifletteva la predilezione della cultura greca per le attività atletiche non professionali, dove il vincitore riceveva un premio per aver dimostrato le sue superiori doti fisiche e morali. Le principali pratiche sportive praticate nella Penisola dominata dai Romani erano il pancrazio (una sorta di lotta e pugilato insieme, i quali comunque esistevano anche come “competizioni” autonome), la corsa, il lancio del giavellotto e del disco, il getto del peso. In realtà, esse venivano spesso assimilate agli spettacoli che andavano in scena nel “circo”, i ludi o circenses, per utilizzare un’espressione tanto cara a patrizi e plebei italici: prestazioni ginniche, funambolismo, l’equitazione applicata alle corse delle quadrighe e alle evoluzioni dei desultores, atleti capaci di saltare da un cavallo all’altro in corsa o da un cavallo su una quadriga in movimento. Si organizzavano anche mastodontiche battaglie navali, le naumachie, che simulavano quelle storiche realmente combattute dai soldati romani; esse venivano svolte in bacini naturali oppure si ricorreva all’allagamento di bacini naturali, piuttosto che all’utilizzo di circhi e arene che, nella circostanza, si trasformavano in veri e propri laghetti artificiali.
Per moderare la virulenza (abbondante, purtroppo…) dei cruenti spettacoli del circo, che scandalizzava la parte più moderata della società, venne a più riprese proposta anche nella nostra Penisola l’introduzione dei Giochi ellenici, dove prevaleva lo spirito agonistico e nei quali la gara serviva a fortificare il corpo e non a distruggerlo, in nome di quell’esemplare fairplay – lo “spirito olimpico” – che da sempre ci si sforza di tramandare nei secoli, tra le varie generazioni di atleti.
Questa documentata tradizione sportiva ha continuato a svilupparsi nell’attuale Italia anche nel corso del Medioevo e della successiva Età Moderna, principalmente con le celeberrime “giostre” e con i duelli di spada o sciabola, che nel Bel Paese hanno una tradizione davvero molto radicata. Pensate, molti studiosi sostengono che tale pratica sia nata proprio in Italia nella forma del combattimento consensuale e prestabilito, scaturito per la difesa dell’onore, della giustizia e della rispettabilità e da svolgere secondo regole accettate in modo esplicito o implicito tra uomini di ceto sociale uguale e armati nello stesso modo. Non sarebbe dunque un caso l’atavico magistero tricolore nella Scherma, cassaforte inscalfibile di metalli preziosi e fiore all’occhiello delle nostre imprese sportive, olimpiche e non. Non mancavano nel Medioevo nemmeno le gare di tiro con l’arco o di pallacorda (antenata del tennis), svago tipico della nobiltà al pari della caccia; mentre il durissimo calcio storico fiorentino infiammava gli animi della popolazione più umile.
Insomma, italiani da sempre inguaribili agonisti, è evidente!
CREATIVITÀ, ESTRO, CAPACITÀ INNATA DI ADATTARSI E DI USCIRE DALLE DIFFICOLTÀ
Chiudiamo questa corposa disamina con un altro degli indubbi tratti distintivi della civiltà italica. Siamo riconosciuti da tutti come i “campioni” universali dell’estro, della creatività, del savoir faire e del savoir vivre. Nelle arti visive (scultura, disegno, pittura, ma anche fotografia e cinema), nella letteratura, in architettura, design, musica, teatro, nell’opera e…nelle cucine: anche in questi campi extra-sportivi l’Italia è ai vertici planetari dell’eccellenza assoluta e non da pochi anni.
Estro e creatività che si sono sempre tradotti in una grande capacità di uscire dalle difficoltà o di adattarsi/abituarsi ai cambiamenti (talvolta pure troppo, non essendo storicamente gli italiani proprio dei campioni in ambito “rivoluzionario”…). Doti radicatesi ormai nel nostro modo di essere e di gestire la quotidianità, che sono state inevitabilmente trasferite pure in gara. Siamo orgogliosi, resilienti, non molliamo facilmente, anzi, non moriamo mai! Trionfiamo più di frequente da underdogs che quando partiamo con i favoriti della vigilia; ce lo ricordano solo alcuni dei più grandi successi dello Sport italiano, arrivati proprio all’indomani di difficoltà, problemi o autentiche crisi nazionali.
I due Mondiali del pallone (1982 e 2006), dopo il caos totale scaturito dagli scandali del calcioscommesse e di calciopoli, i clamorosi Giochi di Tokyo post-Covid con il dramma della pandemia “coronata” che ha colpito e addolorato l’Italia più di ogni altra comunità al mondo, quantomeno nella sua prima fase; nello specifico, l’impensabile exploit nipponico dell’Atletica azzurra, dopo anni di semianonimato internazionale… Ancora, gli straordinari risultati ottenuti nelle due edizioni post-belliche delle Olimpiadi estive (1920 e 1948), nonostante il nostro Paese avesse patito tante vicissitudini negative – eufemismo – nel corso di entrambi gli eventi bellici e dei rispettivi dopoguerra. L’oro di Atlanta e il bronzo di Atene di Jury Chechi dopo i due gravi infortuni ai tendini che lo avevano estromesso, da favorito numero uno per la vittoria finale, dai Giochi di Barcellona e Sydney. La Coppa Davis del 1976 alzata nel cielo di Santiago del Cile, tra mille turbolenze politiche, dai nostri eroici moschettieri della racchetta; fino agli inarrivabili successi del mitologico slittinista altoatesino Armin Zöggeler dovendo fronteggiare la perdurante assenza di piste artificiali, per allenarsi in territorio patrio.
Potremmo continuare per ore, perché l’elenco delle imprese sportive azzurre in condizioni di difficoltà, o quali esempi di riscatto trasversale dopo situazioni avverse, è davvero lungo…
Chiaramente, tutto ciò non avrebbe senso se poi a rendere concrete tutte queste “belle teorie” non ci fossero stati gli investimenti mirati e gli uomini, i Governi dello Sport, i pensatori, i materiali attuatori – con la conseguente impiantistica – di idee, progetti e programmi di sviluppo di un movimento che probabilmente oggi, nel 2022, ha raggiunto nel suo complesso le vette più alte della nostra ultrasecolare storia agonistica. E pensare che in quanto a strutture e politica scolastica/universitaria in materia di crescita dello Sport (elementi entrambi che si riflettono inevitabilmente sul numero totale di praticanti, tesserati e non, ancora molto basso nella nostra Penisola, soprattutto tra i più giovani) c’è ancora tantissimo da fare, da migliorare. Ma questo è un altro enorme capitolo, ahinoi doloroso nonché più che meritevole di ulteriori approfondimenti, spunti di riflessione e, magari, di una definitiva risoluzione in tempi “brevi”.
Perché arrivare ad essere una riconosciuta e rispettata potenza sportiva del globo terracqueo è bello, gratificante, però mantenere a lungo questo status, consolidandosi ancor più nei decenni senza troppi alti e bassi, lo sarebbe molto molto di più…
A cura di Giuseppe Urbano
Foto: Lapresse