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Laver Cup 2022: Roger Federer, l’ultimo passo della leggenda. Il doppio con Rafael Nadal chiude un’era
Anche i pezzi infiniti di storia del tennis, prima o poi, hanno una fine. E quella di Roger Federer segna, letteralmente, il termine di un’epoca. Aveva iniziato a muovere i primissimi passi con i tornei Satellite, antesignani dei Futures, nel 1996, proprio l’anno in cui Stefan Edberg, tra i suoi grandi idoli, realizzava un vero e proprio tour d’addio attraverso i tornei disputati in quella stagione. Finisce ora, alla O2 Arena di Londra, dopo aver affrontato, nei fatti, generazioni di tennisti.
A Basilea l’inizio fu Andre Agassi, con il quale tante sarebbero state le sfide, alcune ventose, altre esaltanti, una in finale agli US Open 2005, quelli del quasi miracolo del Kid di Las Vegas. L’Italia si accorse di lui in Coppa Davis, quando nel 1999 sconfisse Davide Sanguinetti. Qualcuno l’aveva già notato prima, nel Wimbledon junior vinto in un 1998 di epoca dominante a firma Pete Sampras, contro Irakli Labadze, georgiano che aveva la fama di perdersi e ritrovarsi parecchie volte nell’arco della stessa partita. Poi Pete Sampras l’ha battuto, nello storico ottavo di Wimbledon 2001. E gli uomini di quella generazione li ha affrontati, sconfiggendone tanti: Yevgeny Kafelnikov, Michael Chang, Alex Corretja, Marcelo Rios, Richard Krajicek, Goran Ivanisevic, Wayne Ferreira, Thomas Enqvist, Magnus Norman.
Poi di era è arrivata la sua. Quella degli Slam, di giocatori come Andy Roddick e Lleyton Hewitt che inizialmente parevano più lanciati di lui, di Marat Safin che prometteva fuoco e fiamme, di Juan Carlos Ferrero che sembrava destinato a prendere il testimone di Guga Kuerten sul rosso. Invece, da Wimbledon 2003 in avanti, la sua l’ha detta lui. E gli anni dal 2004 al 2007 hanno mostrato la parte dominante di Federer. Qualcuno, come David Nalbandian, poteva batterlo occasionalmente. Ma il solo a poterci riuscire più volte era Rafael Nadal, l’uomo che assieme a lui ha attraversato la storia con una rivalità che, per iconicità, segue idealmente Borg-McEnroe (non per caso i capitani di Laver Cup) e Sampras-Agassi. Personaggi solo apparentemente diversi i primi due, realmente su pianeti differenti gli altri due.
Laver Cup 2022, Rafael Nadal: “Sono emozionato di giocare l’ultimo doppio con Roger Federer”
E con Nadal è arrivato anche Novak Djokovic, e poi in coda Andy Murray e Juan Martin del Potro, con l’argentino che è il più grande “e se” degli ultimi vent’anni di tennis. Se prima erano in due, ora erano quattro in cima al tennis. E potevano diventare cinque, con occasionali elementi di disturbo dei quali grande rappresentante è stato Jo-Wilfried Tsonga. Anni di lotte, di battaglie e di Slam praticamente spartiti, di continui avvicendamenti Federer-Nadal-Djokovic in vetta al ranking ATP. E di una generazione, quella che anche Grigor Dimitrov doveva capitanare, che si è ritrovata schiacciata da questi tre (anzi quattro, perché Murray ne è degnissima parte: a chi discute se abbia meritato un posto basta citare il fatto che lui, al numero 1 del mondo, ci è arrivato). E dai quali, invece, alla fine è emerso Stan Wawrinka, arrivato a una partita dal Career Grand Slam.
Paradossalmente, più che quando gli Slam li vinceva regolarmente, Federer la leggenda l’ha costruita dopo. Negli anni in cui l’impossibile andava vicino a diventare possibile. L’età avanzava, il tocco no, e le soluzioni trovate diventavano ogni volta più mirabolanti. Fino a quegli Australian Open 2017 incredibili. Altro che nuova generazione: l’uomo venuto da Basilea era sempre lì, e in un anno ecco che altri tre Slam si univano alla collezione. Arrivavano i vari Alexander Zverev, Stefanos Tsitsipas, Dominic Thiem, Matteo Berrettini, ma lui, Federer, era sempre lì, quasi a dire: “State salendo? Dovete ancora battere anche me”. Poi Wimbledon 2019, il calo, il ginocchio che iniziava a scendere e quell’ultimo Centre Court. L’ora più brutta mentre lentamente si materializzava il 6-0 di Hubert Hurkacz.
Dagli States alla Polonia, dalla Spagna alla Russia, dal Cile all’Olanda, dal Sudafrica alla Svezia, dalla Croazia alla triade Spagna-Serbia-Regno Unito (cioè, di fatto, Inghilterra e Scozia per la massima parte), Federer di rivali ne ha incontrati tanti, di tutti i tipi, da tutti i cinque i continenti, in qualunque angolo del mondo. Presto è diventato l’icona per eccellenza, l’uomo che ha portato il tennis a nuovi livelli di popolarità. Per dirla con un concetto espresso in una delle tante spettacolari conferenze stampa di Roddick, non è che il mondo della racchetta si sia poi dovuto preoccupare tanto. A settembre 2002 Sampras ha vinto gli US Open (e ha chiuso con quelli), a luglio 2003 Federer ha portato a casa il suo primo Wimbledon. Continuità tra due giganti.
Ed oggi che arriva la fine, suona quasi come un fatto naturale, quello di giocare di nuovo, dopo cinque anni, insieme a Nadal nell’ultimo doppio della carriera. I due non hanno mai fatto mistero di stimarsi, di essersi spinti a migliorare, portando il tennis a vette spaventosamente alte (dal terzo set in poi a Wimbledon 2008, per tutto il tempo agli Australian Open 2017, per citare le due partite più famose, ma merita una citazione anche Roma 2006). E le parole giuste le ha trovate proprio il mancino di Manacor: “If we talk about perfection on the tennis court, it’s him“. Se parliamo di perfezione sul campo da tennis, è lui. Lui, che ha unito il tennis classico a quello moderno.
Certo, non va dimenticato che ci sono altri tre incontri. Che Casper Ruud testa il momento di Jack Sock (il norvegese arriva da due finali Slam, l’americano fatica ancora a risalire). Che Stefanos Tsitsipas vuole capire come sta davvero Diego Schwartzman (il greco è uscito con fin troppi dubbi dagli US Open, l’argentino in Coppa Davis ha fatto capire di essere fuori forma). Che Andy Murray, uno scozzese fino al midollo che è riuscito a farsi rispettare e tifare anche da Londra, ritrova dopo tre anni Alex de Minaur, e l’australiano sta andando a livelli costanti da settimane.
Alla fine dei conti, però, tutto questo sarà un avvicinamento al momento più atteso da tutti. Roger Federer e Rafael Nadal contro Jack Sock e Frances Tiafoe. Per certi versi è addirittura una rivincita, perché Nadal da Tiafoe ha perso negli ottavi a New York. Ma qui si tratta di doppio, quel doppio nel quale l’uomo che, a 41 anni, sta chiudendo col tennis avrebbe anche potuto costruire una buonissima carriera. Prima di dedicarsi solo al singolare, infatti, vale la pena ricordare che Federer, nel periodo 2002-2003, era anche tra i primi 50 dell’altra specialità in maniera costante, e poco prima di diventare quello che conosciamo vinceva Miami con il bielorusso Max Mirnyi, uno che quanto a servire forte non si faceva grandi problemi.
L’ultimo ballo. Federer questo metterà in piedi alla O2 Arena. Poi chissà, qualche altra esibizione potrebbe saltare fuori. All’atto pratico, però, questa è la chiusura di un cerchio. E di una leggenda. Forse è anche giusto così, che finisca accanto al rivale di una vita, quello con uno stile così diverso da metterlo in difficoltà fin da Miami 2004. Oggi la storia del tennis vede l’uno accompagnare l’altro alla fine, con la fattiva collaborazione di Sock che, nel 2017, era proprio di fronte al primo “Fedal” unito nella cronologia tennistica. Cambia solo Tiafoe al posto di Sam Querrey. Ed il luogo, in fondo, è un po’ quello giusto: Londra. Non la sacra erba, ma quella che per 12 edizioni è stata la casa delle ATP Finals, che Federer ha vinto sei volte, più di ogni altro. Ma, oltre i numeri, oggi conta il segno lasciato. E quello lo si ricorderà finché esisterà l’uomo.
Foto: LaPresse