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F1, Ferrari archivia l’ennesimo fallimento. A Maranello vincere è ancora una vocazione, oppure non interessa più?

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Il Mondiale di Formula Uno 2022 si è concluso nella giornata di ieri. La Ferrari ha archiviato l’ennesima stagione fallimentare. Il termine sarà anche forte e magari a qualcuno apparirà fuori luogo, però non sono gli asettici dati statistici a definire il bilancio, bensì tutta una serie di lacune emerse nell’arco degli ultimi otto mesi che ha messo in luce una preoccupante realtà. La Scuderia di Maranello non si è rivelata all’altezza di vincere il Mondiale. Ecco perché si deve parlare di fallimento.

Non è un giudizio dato a posteriori dopo l’esito di un campionato molto tirato, perso per circostanze sfavorevoli contro avversari più performanti o più solidi, come avvenuto nel 2012 o nel 2017. Si tratta della constatazione di come, nel 2022, alle Rosse sia mancato quasi tutto ciò di cui c’è bisogno per fregiarsi dell’Iride, eccezion fatta per il progetto iniziale. La F1-75 è nata bene, tuttavia è cresciuta male, come dimostrato dal fatto di essere passata dal ruolo di monoposto da battere a quello, in diversi contesti, di terza forza, perdendo prima il passo della RB18 e, poi, vedendosi sorpassata finanche dalla W13.

L’alibi della famigerata direttiva tecnica 39 non regge. Anzi, se davvero il cambiamento regolamentare ha inciso in negativo, si tratta di un’aggravante che certifica la mancanza di reattività. La normativa è cambiata per tutti, non solo per Ferrari. Se gli uomini in rosso sono stati gli unici fra quelli dei top team a non trovare le adeguate contromisure alle novità, significa avere un grosso handicap. Peraltro, il calo di competitività progressivo è da anni il triste leitmotiv suonato dal Cavallino Rampante, quasi soffra di una cronica difficoltà nello sviluppare le vetture. È come se a Maranello abbiano bisogno di più tempo degli altri per trovare le soluzioni. Un po’ come a scuola. C’è chi riesce a risolvere i problemi al volo, chi invece necessita di studiarci su e magari, alla fine, ci arriva comunque. Però sui banchi non c’è una gara dove conta arrivare primi, a differenza della Formula Uno, spietata e ipercompetitiva.

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La dinamica è viepiù inquietante se si pensa al fatto che Red Bull e Mercedes si siano spremute all’inverosimile nella battaglia per il Mondiale 2021, mentre Ferrari lo scorso anno abbia lavorato solo ed esclusivamente in ottica 2022. Infatti è arrivata preparatissima alla stagione corrente, ma quando a Milton Keynes e a Brackley si sono “rimessi a studiare”, sono arrivati alla fine della stagione nuovamente davanti alle Rosse, seminate dal Drink Team e sverniciate dalle Frecce d’Argento.

Al di là del piano tecnico, la lacuna rappresentata dall’assenza di prontezza e adattabilità si è vista soprattutto nell’ambito dove è più necessaria, quello della capacità di leggere le situazioni di gara. Serve ritornare sulla serie di svarioni commessi durante il 2022? Montecarlo, Silverstone, Budapest e Interlagos giusto per citare i casi più eclatanti, peraltro praticamente sempre andati a discapito di un solo pilota, ovvero Charles Leclerc.

Già, i piloti, almeno loro sono da Mondiale? Non lo hanno ancora dimostrato. Forse il monegasco può esserlo, nonostante non sia certo stato esente da errori. Però, se vogliamo dirla tutta, neppure Max Verstappen si è rivelato irreprensibile. Bisognerebbe vedere come risponderebbe il venticinquenne del Principato ingaggiato in un lungo corpo a corpo per il titolo, situazione che non ha ancora vissuto. Gli va concesso il beneficio del dubbio.

A contorno di tutto ciò, è emersa tutta un’altra serie di carenze. Pit-stop spesso problematici, una comunicazione ai confini della realtà, fatta di dichiarazioni roboanti seguite poi quasi sempre da scuse puerili, scaduta in un finale caotico con la pubblicazione della notizia, poi smentita, della fantomatica sostituzione di Mattia Binotto con Frederic Vasseur a partire da gennaio. Fermo restando che un argomento del genere andrebbe declinato relativamente a ruoli e compiti, in molti non la ritengono una “bufala”, bensì un’anticipazione filtrata in qualche modo dalle stanze dei bottoni.

Un leak, insomma, una goccia. Mai metafora fu più adeguata, perché la Ferrari fa acqua da tutte le parti, almeno se l’obiettivo è quello di conquistare il Mondiale. Però, a questo punto, sorge spontanea una domanda. Vincere interessa davvero? Perché essere un top team non basta per fregiarsi del titolo, bisogna saperselo guadagnare e soprattutto volerlo. Sotto questo aspetto, Red Bull e Mercedes danno l’impressione di essere pronte a tutto pur di imporsi.

Il Drink Team si è abbuffato il più possibile, proprio come facevano le Frecce d’Argento negli anni del dominio. Una sorta di bulimia agonistica che però non riempie mai la pancia né dell’una, né dell’altra. Al riguardo, è emblematico notare come la Casa di Stoccarda abbia approcciato il 2022. Dopo aver “bucato” il progetto iniziale, non lo ha lasciato perdere per “lavorare sull’anno prossimo” (cit.), ma si è applicata per capire come curare i mali della W13, alfine divenuta a sua volta una monoposto vincente.

Dunque ci si pone un quesito. A chi tira le fila di Maranello, davvero importa che si arrivi al titolo? Red Bull è entrata in F1 da poco meno di vent’anni priva di tradizione e la sua sopravvivenza dipende dalle vittorie stesse. Senza affermazioni, non c’è blasone. Mercedes vede il successo come una sorta di missione per dimostrare la propria superiorità. E Ferrari? Al Cavallino Rampante, invece, non serve primeggiare per avere lustro e non è necessario fare incetta di Mondiali di F1 per avere un ritorno in termini d’immagine. Basta il nome. “Ferrari” è una parola magica che apre tutte le porte.

Però questa magia deriva da un’eredità, quella di Enzo Ferrari, per il quale vincere e vedere le proprie creature davanti a tutte le altre era una vocazione. Lo è stata anche per Gianni Agnelli negli anni ’90, che infatti fece di tutto per riportare al vertice le Rosse. Mise al comando della Scuderia Luca Cordero di Montezemolo, un uomo che aveva vissuto l’epoca d’oro di metà anni ’70, respirando l’aria della “vera” Scuderia, assimilandone la mentalità. Si procedette poi a ingaggiare il meglio del meglio su piazza in ogni ambito (Michael Schumacher, Jean Todt, Ross Brawn e Rory Byrne), proprio per ricercare l’eccellenza. I risultati li conosciamo.

Vincere è una vocazione anche oggi? Oppure è sufficiente ottenere qualche successo qua e là per tenere vivo l’interesse attorno a un marchio che non ha bisogno di trionfare per essere conosciuto, “vivacchiando” con una serie di uomini pescati dall’interno di una famiglia di aziende più ampia e spostati come pedine all’interno di un ufficio pubblico? Il dubbio, ormai, è legittimo. La speranza è che venga spazzato via in tempi rapidi, perché se davvero fosse così, sarebbe davvero una dinamica molto triste che, peraltro, certificherebbe la fine di un mito.

Foto: La Presse

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