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Ciclismo, Davide Cassani lancia l’allarme: “I nostri giovani arrivano al professionismo vecchi di spirito”

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Storicamente, la Nazionale azzurra ha sempre potuto contare su giovani corridori promettenti che, affacciatisi al mondo del professionismo, hanno intrapreso questa nuova strada con impegno, serietà, professionalità e tanta passione. In questi ultimi tempi, invece, sta venendo un po’ meno quanto descritto in precedenza, e a evidenziarlo è Davide Cassani, parlando di Gabriele BenedettiMattia Petrucci rei di aver mollato sul più bello, e forse anche per colpe non loro, “spremuti” al massimo delle loro possibilità sin da giovani.

Attraverso un lungo ma profondo discorso pubblicato sulla propria pagina Facebook, il Commissario Tecnico della Nazionale Italiana di ciclismo ha detto la sua, in modo anche piuttosto diretto, su quanto sia profondamente cambiato l’approccio che i giovani hanno al professionismo, palesando difficoltà. “Spesso, molto spesso, si parla di “fuoco sacro“ quando ci si riferisce a quella voglia che spinge qualcuno a fare qualcosa. È indubitabile che anche lo sport, quando agli inizi richiede molti sacrifici e ovviamente ancora non porta grandi soddisfazioni, chiunque lo interpreti, è continuamente in discussione con se stesso. È accaduto infatti che due promettenti corridori ciclisti, Gabriele Benedetti classe 2000 e Mattia Petrucci classe 2000 hanno come si dice in gergo, buttato la spugna“, esordisce Cassani.

Prosegue Cassani: “Hanno detto che così non potevano continuare. Non è una bella cosa. Evidentemente bisogna fare qualche cosa affinché si arrivi a cambiare radicalmente il concetto di sport e di attività sportiva. Non si possono chiedere soltanto le medaglie così come non si può chiedere all’orto di produrre meravigliosi pomodori senza aver seminato. È un messaggio importante quello che ci deriva dalle due fughe perché veramente si può anzi si deve parlare di fughe. Perché sono due ragazzi che non sono fuggiti da una passione, quella gli resterà tutta la vita, ma sono fuggiti da una mancanza di ragione di vita. Uno, anzi due ragazzi riescono a raggiungere il professionismo, realizzano il grande sogno di fare della propria passione un lavoro, poter correre le grandi corse, che fin da bambini sognavano, insomma, arrivare finalmente al tanto agognato professionismo. E cosa fanno raggiunto questo traguardo? Smettono“.

Come detto il precedenza, la colpa non va attribuita ai soli corridori, ma a un sistema che forse non li protegge abbastanza: “E perché? Non è che la ‘pressione’ assolutamente normale per un corridore professionista sia arrivata sulle spalle di questi ragazzi quando ancora non erano pronti? Non è che abbiano vissuto da professionisti quando ancora erano ragazzini juniores o Under 23? Lo sport va coltivato proprio come va coltivata la pianticella nell’orto. Nessun albero cresce se non ha cure quotidiane. Lo sport va insegnato, a piccole dosi, soprattutto uno sport di fatica come il ciclismo. Facile fare vincere un ragazzino, lo alleni il doppio di un suo coetaneo ma poi? Continuo ad allenarlo il doppio rispetto a tutti gli altri? E dov’è il divertimento?“.

Evidente, al riguardo, la differenza con il suo approccio al professionismo, alle gare e più in generale al mondo del ciclismo: “Quando ero juniores non vedevo l’ora di uscire in bicicletta e il sabato sera facevo fatica a prendere sonno perché non vedevo l’ora che arrivasse l’ora della gara. Mio padre mi seguiva ma non ha mai osato dirmi una parola sul mio fare ciclismo. Gli andava bene tutto. Era felice perché mi vedeva felice. È mai ha rotto quel mio equilibrio dettato dalla voglia di andare in bicicletta facendo quello che era giusto per la mia età. Mia madre non voleva che corressi e per lei dovevo andare a scuola. Dovevo studiare? Niente bici. Sono arrivato a 21 anni con la voglia di spaccare il mondo. Il giorno che sono passato professionista ho realizzato il sogno della mia infanzia. Ero carico, motivato e consapevole che avrei trovato un gruppo di corridori molto più forte di me. Ma non avevo nessun timore. Ero pronto. Avete presente quando siete seduti su una poltrona del dentista che vi deve togliere un dente? Sai che un po’ di male lo sentirai quindi sei preparato. Io mi sentivo pronto a ‘sentire male’ ed avevo quella voglia di lottare così elevata che niente e nessuno mi faceva paura. Ero integro, fino a qualche mese prima ero un dilettante, mi allenavo come un dilettante e chiedevo a me stesso risultati da dilettante. Andavo a scuola e mi allevano. Studiavo e correvo. Nessuno mi ha mai chiesto chissà cosa“.

Da qui, poi, una conclusione che in realtà è un segnale di allarme per l’intero movimento ciclistico italiano, sperando che la situazione possa cambiare: “Ho l’impressione che tanti giovani arrivino al professionismo vecchi di spirito, esausti nelle ambizioni, logori da pressioni famigliari o altro. Non posso credere che un ragazzo di 23 anni molli nello stesso istante che approda al professionismo. C’è qualcosa che non quadra. I nostri giovani sono come alberi soggetti a qualunque tipo di vento e ogni tipo di tempesta sottoforma di tentazione. L’albero resiste al vento e alla tempesta, una pianticella no. I giovani vanno protetti e seguiti. Devono mettere le radici, crescere e quando diventeranno grandi saranno pronti a resistere a qualsiasi tipo di difficoltà. L’abbandono di Benedetti e Petrucci fanno pensare. Ma gli faccio i complimenti per la scelta che hanno fatto. Perché? Perché hanno ascoltato loro stessi e non altre persone. Hanno scelto da soli e sono arrivati alla conclusione che per il loro bene era meglio smettere. Spero che abbiano fatto la scelta giusta“.

Foto: LaPresse

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