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Ryder Cup 2023: gli Stati Uniti non vincono una edizione in Europa da 30 anni!

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1993, Belfry, là dove tra il 1989 e il 2002 si sono giocate ben quattro Ryder Cup. Questa era la terza, ma nel Warwickshire di sorrisi europei ce ne furono ben pochi. Risale ad allora, infatti, l’ultima vittoria in Europa degli Stati Uniti: un tempo che sembra infinito, ma è reale e viene rimarcato ogni volta dalla stampa oltreoceano.

Ma cos’accadde quell’anno? Innanzitutto, ricordiamo i due team. Per l’Europa capitano Bernard Gallacher, in campo quattro inglesi, Nick Faldo (al tempo numero 1 al mondo), Mark James, Barry Lane, Peter Baker, due scozzesi, Colin Montgomerie e Sam Torrance, due spagnoli, Josè Maria Olazabal e il leggendario Seve Ballesteros, un gallese, Ian Woosnam, un tedesco, Bernhard Langer (all’epoca 3 del mondo), uno svedese, Joakim Haeggman, e Costantino Rocca, il primo italiano di sempre a entrare nella squadra europea da numero 40 mondiale. Gli Stati Uniti rispondevano con Tom Watson capitano e Paul Azinger, Fred Couples, Tom Kite, Lee Janzen, Corey Pavin, Payne Stewart, John Cook, Davis Love III, Chip Beck, Jim Gallacher Jr., Raymond Floyd, Lanny Wadkins.

Dal momento che nelle due edizioni precedenti Ballesteros e Azinger si erano letteralmente beccati in tutti i modi possibili e immaginabili, nel 1993 si fece di tutto per evitare che si incrociassero di nuovo, e in effetti non si trovarono l’uno contro l’altro in nessuna occasione. Il primo giorno, con i foursome al mattino, vide inizialmente un 2-2, trasformatosi in 4,5-3,5 per l’Europa dopo i fourball: protagonisti da una parte Woosnam e dall’altra il duo Wadkins/Pavin, gli unici a fare 2/2.

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Al sabato la fortuna di Woosnam continuò inarrestabile sia con Langer nei foursome che con Baker nei fourball: 4/4 personale per lui. Ma, se alla mattina l’Europa volò fin sul 7,5-4,5, arrivò nel pomeriggio la pronta risposta americana, con distanze ridotte fino all’8,5-7,5. Fu in questa ulteriore occasione che fece il suo esordio Costantino Rocca, accanto a James, ma senza fortuna: Pavin e Gallagher vinsero il loro fourball 5&4.

Venne poi la domenica, quella dei match singoli. L’Europa, però, non riuscì a tenere il passo. O meglio, inizialmente lo comandò, perché portò a casa 3,5 punti su 5 con i successi di Montgomerie, Baker e Haeggman; dal 12-9 si sarebbe detta davvero importante la situazione per il team continentale. Invece arrivò il recupero USA: momento dopo momento, tutto si ribaltò. Non su 12 match, ma su 11, perché Torrance si era infortunato e non poté giocare; per regolamento, allora e oggi questo significa che colui che viene nominato (c’è una procedura specifica) contro l’impossibilitato pareggia automaticamente. Quell’uno scelto da Tom Watson fu Lanny Wadkins, che in realtà si scelse da solo, perché chiese espressamente di essere “collocato” nel non match. Un autentico sacrificio.

Di quegli 11 match, a risultare decisivo fu il confronto dei due debuttanti, Love III e Rocca. Costantino era arrivato 1 up alla buca 16, ma perse la 17 giocando tre putt invece di due. Alla 18 prima finì in rough e poi mancò il putt per il par da sei metri. Di contro, Love III riuscì a mettere dentro il suo, alzando le braccia, girandosi verso il pubblico… e non trovando più la pallina vincente una volta ricordatosi di andare a prenderla. Ci fu poi l’abbraccio tra i due, con Rocca che era finito in lacrime. E, più tardi, sarebbe finito anche sotto attacco di una certa stampa britannica; si sarebbe rifatto con gli interessi nel 1995 (buca in uno) e nel 1997 (battendo un rampante Tiger Woods).

Degli uomini degli USA, uno non c’è più. E se n’è andato troppo presto. Payne Stewart, a 42 anni e pochi mesi dopo aver vinto lo US Open 1999, morì. Gli fu fatale uno schianto aereo nel South Dakota in cui, oltre a lui, persero la vita i piloti, Michael Kling e Stephanie Bellegarrigue, i suoi due agenti, l’ex quarterback di Alabama Robert Fraley e il presidente dell’agenzia Van Ardan, e Bruce Borland, che faceva parte della compagnia di Jack Nicklaus dedicata al design di numerosi campi.

Per rendere l’idea dell’effetto che la morte di Stewart fece, basta citare le parole di Tiger Woods, che nel 1999 stava iniziando a entrare negli anni d’oro: “Non ho dormito per niente. Mi sono rigirato e alzato ttuta la notte, e non vedo come non si sarebbe potuto. Per chiunque abbia conosciuto Payne… è un colpo durissimo per tutti noi, perché era parte delle nostre viste. Che non ci sia più, è difficile ora dirlo al passato. Questa è la parte difficilissima per me, ora, nel parlarne. L’ho visto giusto l’altro giorno. Sarà durissima pensare che non sarà più qui“.

Anche in chiave Europa, però, qualcuno che ha lasciato questo mondo c’è. Seve Ballesteros, leggenda senza tempo del golf continentale e spagnolo in particolare, ci ha lasciati nel 2011. Si parla di un uomo che ha ridefinito il concetto di golf in Europa, vincendo cinque Major, nel complesso 90 tornei da pro e contrassegnando, con il suo stile, un’intera generazione.

Tim Clark, la successiva settimana, chiese espressamente che alla bandiera del Sudafrica si sostituisse, a mezz’asta, quella della Spagna al ritorno da campione in carica in quel del Players Championship. Parlò così: “Seve è stato un mio eroe nella crescita. Il fatto di perderlo è tristissimo per la comunità del golf. Avere la sua bandiera qui è un piccolo tributo a lui. Ovviamente meriterebbe molto di più“. Quel molto di più glielo diede il team europeo di Ryder Cup 2012 capitanato da Olazabal: il miracolo di Medinah. Anche Barry Lane, di quella squadra, non c’è più: se n’è andato nell’ultimo giorno del 2022, a 62 anni, portato via da un cancro.

Foto: LaPresse / Olycom

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