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Il rugby non è uno sport adatto agli italiani? Cosa non funziona e perché il vertice resta sempre lontanissimo

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Paolo Garbisi

Per la decima volta consecutiva l’Italia fallisce la qualificazione ai playoff della Rugby World Cup e lo fa subendo due durissime lezioni dalle prime della classe. 156 punti subiti tra All Blacks e Francia sono un doloroso addio per Kieran Crowley e un’eredità pesante per Gonzalo Quesada. Ma perché il rugby italiano si trova, per l’ennesima volta, davanti a un fallimento?

“Italiani no buoni per rugby” è una frase che la leggenda ovale attribuisce a Nick Mallett e che sembra una sentenza. In realtà, più che gli italiani, a “no essere buoni per rugby” sono i dirigenti. Come capita in molti sport italiani, infatti, la classe dirigente dei club è mediocre. Presidenti-tifosi, che non si contornano di manager capaci, ma di amici o ex giocatori, che però non sanno gestire una società. Manca una governance seria nei club ed è questa governance a votare, poi, la classe dirigente federale. E cambiano i presidenti, ma anno dopo anno la Fir si dimostra inadeguata e incapace di risolvere i problemi del rugby italiano.

“Se era forte giocava per Francia” disse, invece, Pierre Berbizier parlando di David Bortolussi. E questo è un altro limite dell’Italrugby. Da decenni si è cercato di trovare scorciatoie convocando giocatori non cresciuti in Italia, ma con lontani parenti o equiparati. Quasi mai, però, prime scelte, e spesso pronti a scappare via al primo ricco contratto all’estero. Ultimamente le Nazionali junior stanno dando soddisfazioni e, forse, dopo anni le Accademie hanno iniziato a funzionare, dopo decenni di vuoto totale. Ma il fatto reale è che il bacino da cui pescare campioni è limitato ed è dura competere con Paesi come Nuova Zelanda o Francia, dove il rugby è una delle prime scelte dei ragazzi a scuola.

E qui si passa ad un’altra questione. “L’Italia ha un bacino di due sole squadre” ha sentenziato Kieran Crowley nell’ultima intervista post partita con l’Italia. E il CT neozelandese ha fatto un esempio chiaro. In Francia, nel Top 14, ogni club ha almeno 2 o 3 tallonatori francesi. Quindi almeno 28/42 tallonatori tra cui scegliere e nel mazzo almeno un pugno di giocatori d’alto livello li trovi. L’Italia ha Treviso e Zebre, dove se va bene ci sono 3/4 tallonatori italiani. E lì deve pescare il CT. Insomma, di bacino ce ne è poco e nel passato ci sono stati anche presidenti federali che hanno pure messo i bastoni tra le ruote ai nostri migliori talenti (per questioni personali), limitando ancora più le scelte.

E parlando di franchigie, chiudiamo con l’equivoco Zebre. Da anni la franchigia di Parma fatica a essere competitiva. Negli anni sono cambiate più volte la proprietà o la governance, ci sono stati dirigenti capaci, altri incapaci, alcuni “boh”, ma la realtà dei fatti non è mai cambiata. Non c’è mai stata una programmazione coerente, un lavoro fatto per far crescere la qualità dei giocatori. Troppo spesso l’attenzione era concentrata su questioni extra sportive che non hanno aiutato a migliorare il livello. Il risultato? Che tra i convocati per i Mondiali di giocatori delle Zebre ce ne erano pochi. E così non si va lontano.

Foto: LaPresse

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