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F1. Ode a Michael Schumacher. L’uomo che, come Valentino Rossi, volle affermare la superiorità umana sul mezzo meccanico

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Michael Schumacher

Oggi Michael Schumacher compie 55 anni. Un multiplo di undici, numero che – come stiamo per vedere – ricorre a più riprese. Difatti quello odierno è l’undicesimo compleanno dopo l’incidente sciistico del 29 dicembre 2013, il giorno in cui la vita del fuoriclasse di Kerpen cambiò drasticamente.

Tanto di cappello a chi, per oltre un decennio, è stato in grado di preservare la privacy del tedesco, riuscendo nell’impresa di non far trapelare assolutamente nulla in una società ormai degna del Grande Fratello immaginato da Orwell, difendendo peraltro la dignità del sette volte Campione del Mondo dagli assalti della stampa scandalistica teutonica, tanto aggressiva quanto quella britannica o americana.

Undici sono anche le stagioni che Schumacher ha trascorso alla Ferrari, dal 1996 al 2006, in un’epoca in cui i contratti agonisticamente “a tempo indeterminato” non erano ancora diffusi come in questo momento. Vedere un pilota nello stesso team per più di un lustro era una rarità. Figuriamoci ammirarlo con la medesima casacca per oltre dieci anni.

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Gli incastri numerici non si esauriscono al numero undici. Siamo entrati nel 2024, dunque ricorre il ventennale del primo Mondiale di Valentino Rossi con la Yamaha. Cos’hanno in comune i due, oltre al fatto di aver dominato rispettivamente la Formula 1 e la MotoGP in contemporanea? Molto più di quanto si creda.

Innanzitutto, è bene ricordarlo, sarebbero addirittura potuti diventare compagni di squadra nel 2007. Il Dottore aveva accarezzato l’idea di seguire le orme di John Surtees e Mike Hailwood, passando dalle due alle quattro ruote. I test effettuati con la Ferrari nel 2006 erano molto di più di un evento promozionale.

L’operazione non si concretizzò e allora il management del Cavallino Rampante decise di ingaggiare Kimi Räikkönen, per tutelarsi nel caso Schumacher avesse scelto di smettere. Il tedesco era ancora indeciso, ma quando seppe dell’arrivo del finlandese, optò per appendere il casco al chiodo, poiché ritenne di non aver nulla da dimostrare nel confronto diretto con il più giovane rivale.

C’è però di più. Michael, come Valentino, a un certo punto della propria carriera ha effettuato una scelta controcorrente. Nel motorsport, è “naturale” che il pilota migliore vada alla caccia del miglior mezzo. Non è stato così, né per l’uno né per l’altro. Il fuoriclasse di Tavullia, a fine 2003, mollò una Honda dominante per salire in sella a una Yamaha in crisi. L’obiettivo era di dimostrare la superiorità dell’uomo sulla meccanica. Missione compiuta.

Schumacher ha fatto altrettanto nel 1995. Avrebbe potuto restare alla Benetton, ormai cucitagli addosso come un abito su misura (difatti, appena l’abbandonò, il team diretto da Flavio Briatore smise di vincere). Avrebbe potuto bussare alle porte della Williams, unanimemente ritenuta la monoposto più competitiva, e sbaragliare il campo come Max Verstappen ha fatto nel 2023.

Invece, decise di accettare l’offerta della Ferrari. Una squadra che non vinceva più ed era in piena crisi tecnica. Sapeva, il tedesco, a cosa andava incontro. A Maranello erano rimasti legati a logiche sorpassate. Per esempio avevano accumulato anni di ritardo nello sviluppo del motore (la Renault spadroneggiava con l’architettura V10, mentre il Cavallino Rampante aveva miopicamente proseguito sulla strada del V12, nonostante i pro fossero inferiori ai contro).

Per non parlare, poi, dei cosiddetti “guasti da 100 lire” che si verificavano di continuo sulle Rosse, talvolta vittime di problemi di affidabilità grotteschi. Lo stesso Schumacher li tastò con mano nel 1996, fra motori rotti nei giri di ricognizione, semiassi che volavano via dopo ripartenze dai box e un sistema idraulico che salutava tutti all’improvviso.

Eppure Schumi seppe prendere per le mani una struttura allo sbando, imponendo la sua linea e portandola progressivamente al pinnacolo del proprio splendore. Riuscire a rendere il mito Ferrari ancor più fulgido di quanto già non lo fosse, è stata un’impresa sensazionale, anche più del fatto di aver lottato per il Mondiale con una monoposto nettamente inferiore alla concorrenza nel 1997 o azzoppata da pneumatici Goodyear ormai incapaci di tenere il passo di quelli Bridgestone nel 1998.

Nessuno può sapere cosa c’è dietro alle curve cieche della vita. Può esserci un muro contro cui si va a sbattere con violenza. La storia del tedesco, tornato improvvisamente uomo dopo essere stato leggenda, lo dimostra.

Proprio per questo si merita i più calorosi auguri. Perché da uomo ha saputo ribadire come il fattore umano, appunto, possa ancora fare la differenza. Keep Fighting Michael. Si perde solo se ci si arrende. E tu non l’hai mai fatto.

Foto: La Presse

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