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Il mito Alberto Cova: “Avevo piedi elastici per le volate. Nel 1986 vidi i kenyani e capii dove andava l’atletica”

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2024, 40mo anniversario dell’oro olimpico di Los Angeles nei 10000 metri per Alberto Cova che è stato intervistato in esclusiva ai microfoni di Ferdinando Savarese ed Enrico Spada nella trasmissione Sprint2U, in diretta sul canale Youtube di OASport. Andiamo a leggere i passi salienti.

Pensando proprio alla medaglia a Cinque Cerchi: “Per una disciplina come l’atletica l’Olimpiade è il massimo risultato che un atleta possa ottenere. Fino all’anno prima per l’atletica non c’erano neanche i Campionati del mondo”. 

Sulle sue memorabili rimonte finali: “Avevo dei piedi buoni, elastici e ci abbiamo lavorato con il mio allenatore Giorgio Rondelli per mettere in evidenza questa capacità dello sprint finale. Le gare sono andate così in quel periodo storico perché anche altri atleti avevano queste qualità, le gare erano mediamente tattiche e molti atleti pensavano di giocarsela nelle ultime centinaia di metri. Ho gestito sempre bene le mie emozioni senza lasciarmi prendere dalle situazioni che si creavano e ho avuto un allenatore che mi ha sempre preparato tatticamente a queste situazioni. Mi è riuscito tutto bene ed ho ottenuto tutto quello che ho ottenuto, ma è frutto di un lavoro fatto prima delle competizioni”. 

La sua corsa: “In parte era spontanea perché era la mia fisicità, ma in parte costruita. L’economia sotto l’aspetto di un fondista con l’assetto diventa fondamentale. Bisogna risparmiare energie ed utilizzarle nel momento cruciale della gara. La montagnetta di San Siro è stata palestra fondamentale per la mia crescita sportiva. Ognuno ha il suo modo di correre, elegante o meno, ma poi bisogna costruirlo negli allenamenti”. 

Un atleta con la sua stessa impostazione fisica o tattica: “Non penso che ci siano stati e non penso che ci siano oggi. Le fisicità di oggi sono molto diverse: gli africani sono molto più alti e muscolari. Oggi gli atleti sono diversi rispetto a quello che eravamo noi”. 

Una carriera finita presto: “L’ultima gara importante è stata Seoul, ma tutto sommato ho fatto undici anni. Allora le manifestazioni erano ogni quattro anni, non come oggi che ogni due anni c’è un Mondiale o un Europeo, o addirittura come quest’anno con Olimpiadi ed Europei in contemporanea. Bisognava aspettare periodi molto lunghi”.

Cova l’ultimo azzurro a vincere la Cinque Mulini: “Mi dispiace tantissimo che non ci sia un italiano che riesca a vincere una Cinque Mulini”.

Sugli africani: “Li ho incontrati anche durante la mia carriera, erano pochi. Ho incontrato la valanga nera nell’86, la prima esperienza con una squadra di kenioti e lì ho capito quale sarebbe stato il futuro dell’atletica mondiale. Loro hanno la quantità degli atleti e dei talenti. Nel momento in cui gli allenatori e i manager hanno fatto girare il mondo a questi ragazzi, hanno scoperto un modo diverso di vivere la loro vita attraverso lo sport. Hanno un cambio generazionale incredibile, cosa che noi non abbiamo più. Viviamo una società completamente diversa, completamente seduta. Ci sono delle situazioni nei nostri giovani che nel momento in cui li devi far crescere in uno sport, devi fare un’educazione motoria a dieci-dodici anni che noi prima facevamo autonomamente. L’esempio anche nel calcio, quasi si predilige l’atleta africano o di colore che fisicamente, nel momento in cui impara a trattare l’attrezzo sportivo, diventa superiore rispetto ai nostri ragazzi. Diventa un fatto antropologico e anche mentale”.

Ora però c’è un norvegese che è il più forte di tutti: “Il talento esiste, non è vero che non abbiamo i ragazzi, ma non riusciamo a farli arrivare a quel punto che devono fare la scelta di puntare sullo sport. Ingebrigtsen è l’esempio di una famiglia dedicata all’atletica, lui è consapevole delle proprie capacità e dimostra di essere il più forte anche contro l’Africa”. 

Sulle gare su strada: “Avevamo fatto una scelta tecnica ben precisa, per non mettere troppa carne sul fuoco. Le gare su strada cercavamo di non farle visto il calendario che la pista offriva. Puntando ai grandi risultati non potevi continuamente cambiare la tua filosofia. Andavo su strada quando il periodo lo poteva richiedere. Questa cosa di finalizzare i risultati è una di quelle che oggi l’allenatore e l’atleta faticano di comprendere. In pista puoi essere uno dei tanti, in strada in quell’occasione puoi essere protagonista. Ed è l’atleta che deve scegliere”. 

Però un piccolo rimpianto: “Nell’85 potevo fare l’esordio. È rimasto il mio sogno nel cassetto quello di fare la maratona. Oggi posso dire in modo molto tranquillo che forse avremmo dovuto insistere e provare a prepararla. Sarebbe stato curioso capire come avrei potuto sostenere quella distanza”. 

In ogni caso di recente molte vittorie occidentali nel mezzofondo: “Gli africani sono sempre lì, poi ci sono degli atleti occidentali che si stanno esprimendo molto bene. Non è che sono più forti degli altri, ma quel giorno a quell’ora devi dimostrarlo. Questa è la differenza che fa diventare un atleta un campione”.

La spedizione italiana alle Olimpiadi: “Quella di Tokyo ha creato una bella situazione. Tanti atleti si sono messi in evidenza e sono protagonisti dell’atletica internazionale. Ai Mondiali dell’anno scorso abbiamo visto che è difficile ripetersi. Alle Olimpiadi c’è quell’ambiente magico che permette agli atleti di costruire le energie necessarie per esprimersi. Sono convinto che la nostra staffetta sarà ancora protagonista, mi auguro che Marcell Jacobs sia meno infortunato dell’anno scorso e che possa esprimere il suo talento. Punto ancora molto su Gianmarco Tamberi, perché secondo me sarà ancora protagonista. Ci sono dei giovani dietro di loro che possono emergere, non credo da medaglia. Poi c’è la marcia che alla fine ci regala sempre qualche soddisfazione. Io credo che cinque o sei medaglie possono ancora essere vinte dall’atletica italiana, dunque un altro risultato interessante”. 

E gli Europei di Roma: “Potrebbero mettersi in evidenza anche atleti di secondo piano. Potrebbero avere il proprio momento di gloria. Sta agli atleti, agli allenatori e alla Federazione chi mandare pronto agli Europei. Chi punta alle Olimpiadi farà fatica ad essere pronto anche agli Europei”. 

L’INTERVISTA AD ALBERTO COVA

Foto: Olycom.com

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