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Biathlon, i 10 anni della “medaglia che non c’è” di Karin Oberhofer. La storia del “bronzo fantasma” a Sochi 2014

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Karin Oberhofer / La Presse

Oggi è il 9 febbraio 2024. Non è solo il giorno della sprint femminile dei Mondiali di biathlon, bensì anche il decennale del giorno in cui, ai Giochi olimpici di Sochi 2014, questo stesso format conferì le proprie medaglie. Due di esse, però, si smaterializzarono, rimanendo nell’indeterminatezza per anni, salvo poi ricomparire al collo di chi le conquistò in pista, seppur dopo una digressione in ambito legale che ne inquinò l’essenza.

L’unico punto fermo è l’oro, appannaggio di quell’Anastasiya Kuzmina appena tornata in attività. La siberiana naturalizzata slovacca dominò la scena, ma alle sue spalle l’incertezza regnò sovrana. La neve si velocizzò con il passare dei minuti, fornendo un piccolo vantaggio a chi partì con pettorali più alti. L’argento andò alla russa Olga Vilukhina, mentre il bronzo fu artigliato dall’ucraina Vita Semerenko.

L’Italia, ancora ben lontana dai fasti odierni, masticò amaro. Karin Oberhofer disputò quella che, fino a quel momento, rappresentava la sua proverbiale “gara della vita”. Quarta a sei secondi dal terzo posto e a otto dalla piazza d’onore. Una Dorothea Wierer ancora in fase di maturazione si attestò in sesta posizione. Il movimento azzurro fu l’unico ad avere due donne nella top-ten. Un risultato rimarchevole, ma al fiele in un contesto dove a contare sono i tre gradini del podio.

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A fine 2016 scoppia però la bomba del “Report McLaren”, nel quale la Russia viene accusata di aver creato un sistema atto a eludere i controlli antidoping proprio durante i Giochi olimpici di Sochi. Fra i tanti atleti finiti nel mirino del Cio anche l’enigmatica Vilukhina, una in precedenza già “sparita dagli schermi radar” e poi ricomparsa. La siberiana nel frattempo si è precocemente ritirata a causa di “mancanza di motivazioni” dopo l’argento olimpico.

Il risultato della sprint, così come quello di parecchie altre competizioni, diventa sub judice e tale resta per un anno. Fino al 27 novembre 2017, giorno in cui il CIO annuncia la squalifica di Vilukina, nonché delle connazionali Olga Zaitseva e Iana Romanova, tutte ritenute beneficiarie del presunto sistema di copertura di cui è accusato il Comitato olimpico russo.

“Presunto” perché di provato oltre ogni ragionevole dubbio c’è ben poco. Le accuse si basano tutte sulle rivelazioni di un “pentito”, quel Grigory Rodchenkov diventato improvvisamente affidabile e credibile dopo essersi dimostrato un personaggio privo di scrupoli nell’arco della sua parabola professionale. Difatti la vicenda diventa ben presto un pastrocchio.

Vilukhina viene privata dell’argento. Si arguisce che la classifica venga riscritta di conseguenza, con Semerenko promossa alla piazza d’onore e Oberhofer catapultata sul podio a tavolino. C’è chi si congratula frettolosamente con l’altoatesina per la conquista di un bronzo che, però, ancora non c’è. I pendagli metallici restano invero “vacanti”.

C’è in ballo un appello, che va per le lunghe, a dimostrazione di quanto sia nebulosa la vicenda. La parola “fine” viene scritta solo il 24 settembre 2020, quando il CAS di Losanna giunge alla propria conclusione. La peggiore possibile. La squalifica di Zaitseva viene confermata, mentre quelle di Vilukhina e Romanova no. Perché si ritiene che nei loro casi “non si possa provare oltre ogni ragionevole dubbio la violazione delle regole antidoping”.

Il peggio del peggio, insomma. Perché è inverosimile pensare che se Zaitseva abbia beneficiato del sistema di cui sopra, le due compagne di squadra non fossero a loro volta “coperte”. De jure la decisione è ineccepibile, non si può condannare nessuno se vi sono delle incertezze, anche minime. “Nel dubbio, meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente” è la base di ogni sistema giuridico civilizzato. De facto non c’è scenario più brutto. Il risultato di Vilukhina resta, ma offuscato da un’ombra enorme. Quel bronzo ipotetico di Oberhofer svanisce definitivamente.

Sia chiaro, non è la Court of Arbitration for Sport a dover essere messa all’indice. Lì si è ragionato, giustamente, per broccardi e giurisprudenza. Il problema sta altrove ed è legato a un’altra istituzione sportiva con sede a Losanna, mossasi in maniera molto maldestra nel gestire una vicenda delicatissima. Infatti il risultato è stato quello di un elefante istituzionale in una cristalleria.

Il caso di specie genera una riflessione. Ha davvero senso ridistribuire medaglie, magari dopo anni e anni? Anche se vi sia un reato conclamato, chi viene successivamente squalificato ha gareggiato. Esisteva. La sua presenza ha, in un modo o nell’altro, condizionato l’esito della competizione. Tirare una riga su di lui, promuovendo tutti gli altri di conseguenza, fa davvero giustizia?

L’esempio più eclatante è rappresentato dalla 30 km mass start di sci di fondo dei Giochi olimpici di Salt Lake City disputata il… 9 febbraio (!) 2002. Il tedesco naturalizzato spagnolo Johan Mühlegg mise alla frusta tutti gli avversari e passò per primo sul traguardo, salvo venire squalificato pochi giorni dopo per essere risultato positivo a un farmaco equivalente all’Epo.

Con l’iberico d’adozione tolto dalla classifica, tutti vennero avanzati di una posizione e l’oro andò all’austriaco Christian Hoffmann (sul quale bisognerebbe aprire un oscuro capitolo a parte). Peccato che Ole Einar Bjørndalen, sesto sul traguardo e poi issato al quinto posto, in quella gara sia letteralmente “scoppiato” nel tentativo di tenere il forsennato ritmo di Mühlegg.

Insomma, la presenza del teutonico poi diventato spagnolo ha inevitabilmente condizionato lo sviluppo della competizione, inficiandone irreparabilmente l’esito. Se Bjørndalen non si fosse preso il rischio di seguire il dopato di turno, forse avrebbe chiuso secondo. Chi può dirlo?

Dunque non basta cancellare il reo dalla graduatoria per rimettere a posto ogni cosa. Il danno è insanabile. Vale per Mühlegg; vale per tutti i Tour de France di Lance Armstrong; vale per qualsiasi appuntamento in cui chi imbroglia rappresenta una variabile determinante nell’esito di un concorso di qualunque tipo.

Non sarebbe meglio cancellare semplicemente di classifica il colpevole di una violazione sportiva, lasciando invariate le altre posizioni? Una medaglia annichilita non sarebbe, sportivamente parlando, più equa e giusta di una medaglia riassegnata a tavolino a chi, magari, non se la meriterebbe neppure? Al giudizio di ognuno la valutazione sul tema.

Per chiudere ci si permette di lanciare un’ultima riflessione. Che soddisfazione può avere un atleta nell’ottenere una medaglia “postuma”? Fredda e cadaverica, senza l’inestimabile emozione di salire sul podio, senza l’irripetibile momento di gloria?

Ivano Brugnetti raccontò di quanto sia stato finanche avvilente ricevere per posta, in un algido e asettico sacchetto di plastica, l’oro della 50 km dei Mondiali di Siviglia 1999, conferitogli nel 2001 in seguito alla squalifica del vincitore German Skurgyn. Più o meno quella sensazione che avrebbe vissuto Karin Oberhofer nell’ottenere, a sette anni di distanza, un bronzo che non c’è; e non c’è mai stato.

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