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Basket: è morto Bill Walton. Entrò nella Hall of Fame, fu due volte campione NBA

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Bill Walton
Walton / LaPresse

Poche decine di minuti fa, la notizia ha scosso in maniera rilevante il mondo NBA. Bill Walton, due anelli con i Portland Trail Blazers nel 1977 e con i Boston Celtics nel 1986, parte dei 50 originali più grandi della storia NBA quando furono nominati nel 1997, e mantenuto quando essi furono allargati a 75 nel 2022, è morto di cancro.

Nato a La Mesa, California, nel 1952, entrò nella NBA da prima scelta assoluta al draft del 1974 con i Blazers. Il tutto dopo che, l’anno prima, i Dallas Chaparrals avevano tentato di selezionarlo al draft della concorrente ABA per cercare di portarlo via a UCLA. Cosa che, però, non accadde. E, negli anni dal 1970 al 1972, ebbe anche un rapporto controverso con la selezione nazionale americana. Nel 1970 giocò il campionato mondiale, ma era il più giovane della spedizione ed ebbe spazio limitato. Nel 1972 non fu selezionato per le Olimpiadi, provocando il sollievo dei sovietici, che sapevano che con lui non avrebbero avuto chance. Come sia poi finita quella rassegna a cinque cerchi, e quali siano gli strascichi che sono capitati, è storia nota.

I primi anni furono caratterizzati da svariati infortuni ai piedi, ma, una volta risolti tutti, divenne inafferrabile nel ruolo di centro e conquistò da protagonista assoluto, nonché da MVP delle Finals, il titolo 1977 con Portland. Trascinò i compagni al ritmo di oltre 18 punti e 14 rimbalzi a partita sia in stagione regolare che nei playoff. Nell’annata successiva, pur non riuscendo a ripetere a livello di squadra quanto fatto l’anno precedente, divenne MVP della stagione regolare. Ma, nel frattempo, la sua insoddisfazione cresceva: gli infortuni suoi e di altri erano trattati, raccontava, con incompetenza dallo staff dei Blazers. Chiese così di essere ceduto, non fu accontentato e, per protesta, saltò tutta la stagione 1978-1979. Diventato free agent, andò ai San Diego Clippers (che più tardi si sarebbero trasferiti a Los Angeles).

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A San Diego, però, non ci fu tanta fortuna da parte sua, un po’ per gli infortuni (tanti, tantissimi, tanto da portare i dottori a “limitarlo” a una partita a settimana), un po’ perché la franchigia fu appunto trasferita a Los Angeles, con particolare disappunto da parte di Walton. Di fatto, di stagioni intere ne saltò due (80-81 e 81-82) a causa di una frattura all’osso navicolare con tutte le conseguenze del caso.

Arrivò così il suo passaggio ai Boston Celtics, giunto con un piccolo aiuto da Larry Bird: ai Clippers andarono Cedric Maxwell e la prima scelta del draft 1986 (che fu Arvydas Sabonis, scelto con la 24a chiamata, ma il Principe del Baltico lituano, allora ancora sovietico sebbene non certo per propria volontà, in NBA ci avrebbe messo piede solo nove anni dopo e con Portland). Diventato riserva di Kevin McHale e Robert Parish, vinse il titolo di miglior sesto uomo dell’anno nel 1986 e diede una considerevole mano ai Celtics verso il titolo. L’anno dopo disse basta con il basket giocato, ma si guadagnò ulteriore fama dopo.

Divenne commentatore per numerose stazioni televisive (e anche per i Clippers), calandosi nel ruolo per diversi lustri con grande profitto e fama, e a volte anche in maniera controversa. Una questione che, va detto, ha quasi dell’incredibile se si pensa che fino ai 28 anni aveva la balbuzie: gli servì una conversazione con Marty Glickman, la celebre voce dei New York Knicks. Fu grande amico del suo ex coach a UCLA John Wooden. Uno dei suoi figli, Luke Walton, divenne campione NBA nelle stagioni 2008-2009 e 2009-2010 con i Los Angeles Lakers. Fu notoriamente grandissimo fan dei Grateful Dead, tanto da apparire nel documentario “The Other Dream Team”, dedicato alla spettacolare storia della Lituania alle Olimpiadi 1992. Furono proprio i Dead a dare una mano importante per finanziare il viaggio del Paese baltico a Barcellona. Le mitiche magliette psichedeliche, con lo scheletro che schiaccia al centro, furono addirittura più vendute degli oggetti legati al Dream Team, quello vero. Fu anche autore del libro “Back from the Dead: searching for the Sound, shining the Light and throwing it down”, edito Simon and Schuster e uscito nel marzo 2016.

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