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Jannik Sinner in semifinale al Roland Garros: i precedenti italiani a Parigi

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Jannik Sinner
Sinner / LaPresse

Con la semifinale al sapore di numero 1 del mondo raggiunta da Jannik Sinner al Roland Garros 2024, si apre un nuovo scenario italiano per quanto riguarda i giocatori che sono riusciti ad approdare al penultimo atto dello Slam rosso. Prima di lui, infatti, sono stati otto gli azzurri, in 15 occasioni, in grado di issarsi fino al penultimo atto sotto la Tour Eiffel. Naturalmente si parla solo di uomini.

Cominciò Uberto De Morpurgo nel 1930. Il pioniere del tennis italiano al tempo (in cui il torneo si chiamava French Championships) sfruttò due fattori: un tabellone particolare (c’erano sezioni da 7 partite e altre da 6, e lui era in una di queste) e una forma crescente dopo lo spavento al primo turno con il francese Roger George, ritiratosi senza giocare il quinto set. E proprio al quinto set, da numero 4 del tabellone, batté l’australiano Edgar Moon, che quell’anno aveva vinto gli Australian Championships (gli odierni Australian Open). Per sua sfortuna, dovette fronteggiare Henri Cochet, uno dei Quattro Moschettieri nonché il più forte. Finì 7-5 6-1 6-2.

Andò meglio a colui che meglio fu in grado di assisterlo, Giorgio De Stefani, che sfruttò alla grande un buon lato di tabellone, perse solo un parziale fino alla semifinale e, poi, riuscì a eliminare il cecoslovacco Roderich Menzel (nativo di Reichenberg, Boemia, che oggi è Liberec, Repubblica Ceca e poi Cechia), ex calciatore che fu in grado di eliminare Fred Perry 7-5 al quinto. Al veronese di set ne bastarono quattro per raggiungere Cochet in finale e giocare con lui una partita di grande coraggio, che però finì a favore del francese per 6-0 6-4 4-6 6-3. Si presentò in semifinale anche nel 1934, riuscendo a combinare un numero vero: eliminare proprio Fred Perry, allora testa di serie numero 1, in quattro set ai quarti. Fu grande la lotta con Gottfried von Cramm, tennista tedesco per il quale servirebbe un capitolo a parte per descriverne le vicende. Fu proprio il giocatore della Bassa Sassonia a prevalere al quinto e, poi, a conquistare anche il torneo.

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Per un’altra semifinale si dovettero attendere gli Anni ’50, quando Giuseppe “Beppe” Merlo di approdi ne portò a casa due. Il primo nel 1955, quando semplicemente volò fino ai quarti e lì piazzò il colpo di mano contro Vic Seixas, che aveva vinto Wimbledon due anni prima e gli US National Championships (US Open) l’anno precedente. Le speranze, però, si fermarono di fronte a un altro importante terraiolo dei tempi, lo svedese Sven Davidson, che gli concesse otto game (6-3 6-3 6-2). Non andò meglio nel 1956, anche se con meno rimpianti: battuto con fatica il francese Paul Remy in cinque set (e in rimonta), dovette arrendersi a Lew Hoad in semifinale, e l’australiano per i tempi era uno tra i signori assoluti del tennis, che interpretava in maniera sublime in tanti aspetti.

LaPresse / Olycom

Poi venne il 1959, l’anno del primo trionfo di Nicola Pietrangeli. Che, per arrivare in finale, perse solo un set, all’esordio contro il messicano Mario Llamas. E non concesse molto nemmeno a Neale Fraser, tra i grandi del tennis australiano del tempo. Con il sudafricano Ian Vermaak fu tremore iniziale, ma alla fine il 3-6 6-3 6-4 6-1 certificò il primo trionfo. Arrivò anche quello dell’anno successivo, in cui di italiani in semifinale ce ne furono due. Uno era lui, l’altro era Orlando Sirola, il gigante di Fiume dal cammino impressionante: Roy Emerson, Pierre Darmon, Barry MacKay. Poi lo fermò il cileno Luis Ayala. Pietrangeli, dal canto suo, ai quarti non fece sconti allo spagnolo Andres Gimeno, poi tolse speranze all’ultimo dei padroni di casa, Robert Haillet, quindi giocò una lottatissima finale con Ayala e lo sconfisse per 3-6 6-3 6-4 4-6 6-3. L’anno dopo Pietrangeli, per meriti acquisiti, fu insignito del numero 1 del tabellone, ma a sconfiggere prima Roy Emerson, poi Rod Laver e infine lui fu Manolo Santana, in rimonta e in cinque parziali. Ci fu anche il tempo di un’altra finale, quella del 1964, stavolta proprio poco pronosticata: fu di gusto però l’eliminare Emerson e lo svedese Jan-Erik Lundqvist. Solo che, all’ultimo atto, capitò di nuovo Santana. E finì lì.

Adriano Panatta

LaPresse / Olycom

Dal 1973, a tennis Open ormai sdoganato, cominciò l’era di Adriano Panatta. Che, tanto per cominciare, non si fece problemi a eliminare negli ottavi Bjorn Borg (su questo capitolo torneremo a breve). Ancor più, nei quarti sconfisse l’olandese Tom Okker, ma in semifinale fu fermato da Nikola “Niki” Pilic, che gli aveva estromesso già l’amico Paolo Bertolucci e, poco dopo, sarebbe stato il casus belli del più grande sciopero tennistico della storia a Wimbledon. Due anni dopo l’uomo venuto dal quartiere Trionfale di Roma ci riprovò (con Tonino Zugarelli che gli aveva sonoramente estromesso Manuel Orantes), e in effetti riuscì a togliersi il lusso di battere Ilie Nastase, il rumeno che già al tempo per simpatia non brillava. In semifinale trovò Borg, ma stavolta ci perse. Fu solo l’anteprima dell’anno del destino, il 1976. 11 match point annullati al via al Foro Italico di Roma contro Kim Warwick, uno a Parigi contro Pavel Hutka, una volée impossibile in tuffo solo di recente riemersa dagli archivi video degli appassionati. Di lì pochi problemi fino a Borg, ai quarti. Battuto anche lui, in quattro set: questa e quella del 1973 sono le uniche due sconfitte mai subite dall’Orso svedese nella capitale francese. Poi venne Eddie Dibbs, e l’americano raccolse nove game, quindi Harold Solomon. Lui, che negli spogliatoi subì l’appellativo di “Sorcio”. Per confessione stessa di Panatta, non gli parlò più per una decina d’anni. Vinse in quattro parziali, dando tutto nel tie-break del quarto, perché le energie se ne stavano andando: 6-1 6-4 4-6 7-6(3).

Due anni dopo, ad arrivare in semifinale ci riuscì Corrado Barazzutti. E il friulano lo fece con una camminata d’autore, in cui ai quarti di finale toccò (di nuovo) a Dibbs cadere in tre set. Ma, in semifinale, c’era un solo nome. Bjorn Borg. 6-0 6-1 6-0, un risultato rimasto nella storia, una punizione durissima con la miglior versione dello svedese di sempre, che fu “infastidito” (si fa per dire) solo da Roscoe Tanner agli ottavi, con il gigante americano che, com’è come non è, al tie-break riuscì ad arrivarci nel terzo set. Giochi complessivamente concessi dal più grande svedese della storia tennistica: appena 32 nel torneo, di cui 5 a Guillermo Vilas in finale.

Infine, quarant’anni dopo, venne il 2018. E venne con una delle imprese più improbabili e incredibili di tutta la storia del tennis italiano. Marco Cecchinato stava sì attraversando un periodo brillante, ma quanto accaduto a Parigi nessuno se l’aspettava. Il siciliano, mai una vittoria Slam prima di allora, dovette anche rimontare due set all’esordio al rumeno Marius Copil. Dopo aver battuto l’argentino Marco Trungelliti, cominciarono gli scalpi: lo spagnolo Pablo Carreno Busta al terzo turno in quattro set, il belga David Goffin agli ottavi ancora in quattro. Poi, ai quarti, Novak Djokovic in ripresa da quasi due anni difficili. Primo set vinto, secondo anche. Perse il terzo, poi arrivò quel clamoroso 6-3 7-6(4) 1-6 7-6(11) che, dopo quarant’anni, riportò un italiano in semifinale in uno Slam al maschile. Poi perse da Dominic Thiem, con l’austriaco che era al tempo il numero 2 sul rosso, ma quel lampo generò tutto quel che seguì.

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