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Tennis: Sara Errani, con Jasmine Paolini il sogno olimpico continua. Cinque partecipazioni e una storia infinita

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Errani, Paolini / CHINE NOUVELLE/SIPA/ IPA Sport

Nella storia della prima finale italiana di tutto l’evolversi del tennis del Bel Paese, quella che Sara Errani e Jasmine Paolini giocheranno domenica contro avversarie ancora da definire, c’è anche un altro racconto che merita di vivere di luce propria. Perché la finale olimpica è un altro pezzo di storia che si aggiunge ai tantissimi che, nella storia del tennis femminile tricolore, è riuscita a mettere in piedi la bolognese.

Il tutto contro qualsiasi pronostico non già in questi anni, ma fin dall’inizio. Il padre Giorgio sempre aveva creduto nelle sue qualità, fin da quando ne approvò la scelta di andare, a 12 anni, da Nick Bollettieri, nella più famosa di tutte le accademie del tennis esistenti. Giorni a volte complessi, ma che hanno formato già da subito una Sara Errani che, della classe 1987, non era tra le più quotate nel panorama italiano. Su di altre c’erano i fari puntati: Giulia Gabba, che giocava davvero bene, ma che ebbe un quantitativo enorme di guai alla schiena, e Verdiana Verardi, che non riuscì mai a entrare nelle 350 nonostante anche lei avesse molto di valido da dare.

Chi, invece, riuscì a farsi strada fu quella bolognese che aveva fatto un lungo giro per trovare la stabilità tecnica di cui aveva bisogno: da Mouratoglou in Francia fino a Emilio Sanchez, anche da Sergi Bruguera per finire poi a Valencia, con Pablo Lozano, l’uomo che ancora oggi la segue, sebbene per un periodo anche quelle strade si fossero divise. Fu lei che si qualificò per Roma nel 2006, e pazienza se perse con Martina Hingis che poi vinse il torneo. La strada era tracciata, quella che l’avrebbe portata a vincere due tornei in fila nel 2008 a Palermo e Portorose, o Portoroz che dir si voglia.

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In tutto questo, la sua grande voglia di giocare le Olimpiadi c’era già, fin da quell’edizione di Pechino in cui la comparsa fu solo fugace. Quel che non fu fugace fu il suo periodo di permanenza tra le big italiane, mentre Francesca Schiavone e Flavia Pennetta erano, ragionevolmente e per risultati acquisiti, le due stelle. Novero, questo, nel quale finì anche lei dopo un 2012 che si può semplicemente raccontare con i risultati: quarti agli Australian Open, finale al Roland Garros, semifinale agli US Open, quattro tornei vinti (tra cui Palermo, che stava andando verso la fine così come, purtroppo, ha dovuto cedere la licenza anche quest’anno, e dal 2025 in Sicilia di nuovo non si giocherà più) e delle WTA Finals in cui arrivò a un solo game dalle semifinali, in una partita ingiustamente dimenticata, ma fuori da qualsiasi canone di normalità, con Agnieszka Radwanska, un’altra che quanto a tennis di classe qualcosa ne sapeva. In doppio: due Slam (Roland Garros e US Open), 9 finali di cui 7 vinte, un autentico dominio assieme a Roberta Vinci che le portò a diventare numero 1 del mondo. E lei, Sara, da sola fu in grado di issarsi fino a un fine anno da numero 6 del mondo. Che divenne anche 5 nel 2013, segnato da un’altra semifinale a Parigi, dove poi arrivò ai quarti anche nel 2014 e 2015, mentre continuavano i successi in doppio con la compagna di viaggio tarantina: altri nove tornei vinti fino al gennaio 2015, momento nel quale, dopo l’unica sconfitta di Vinci in Fed Cup in doppio nella storia (quella che portò a compimento la clamorosa rimonta della Francia contro l’Italia a Genova), finì il binomio tennistico. Non prima, però, di aver festeggiato il Career Grand Slam sul Centre Court di Wimbledon, nel 2014.

In tutto questo, ci fu il capitolo parallelo Olimpiadi. Londra 2012 fu praticamente impossibile, vuoi per l’erba, vuoi perché i quarti di doppio con le Williams erano una mission impossible sul momento. Ma il 2016 lasciò un’amarezza enorme: la coppia che aveva dato tanto lustro all’Italia, infatti, si era riunita. Ma furono i dettagli, quelli girati nel verso sbagliato, a causare un’altra eliminazione ai quarti. Non contro le Williams, ma contro Safarova/Strycova.

Poi per Sara venne il difficile. Anzi, il molto difficile. Perché tale fu il 2017, in cui esplose il caso doping che fece discutere mezza Italia. Fu chiaro a molti da subito che il letrozolo, la sostanza cui era risultata positiva, doveva essere stato assunto accidentalmente, tant’è che l’ITF lo capì e la squalifica fu breve: due mesi. In pochi vollero informarsi e scoprire che il letrozolo, per le donne non in menopausa, non è esattamente una passeggiata di salute, anzi è una follia colossale nel normale stato delle cose. Chi lo utilizzava, all’interno di un farmaco antitumorale, il Femara, era la madre, impegnata da diversi anni contro una brutta malattia. Nello sport è servito a vari sollevatori di pesi, che corrispondono alla quasi totalità dei positivi per quella sostanza.

Successe che poi ci furono due ricorsi: uno della tennista, l’altro di NADO Italia che voleva aumentare la pena. Per raccontarla molto, ma molto in breve, al TAS l’udienza ci fu a fine 2017, e fu lì che Sara Errani fu attaccata dai giudici nel modo peggiore possibile. In pratica, le fu detto che stava fingendo la malattia della madre. Sarebbe bastato basarsi sul già noto test del capello fatto alle due persone per smontare, in un secondo, un’illazione. Alla fine, per la sentenza servirono sette mesi, infiniti rinvii e un’autentica spada di Damocle in testa. Sette volte le dissero che ci volevano 10 giorni, sette volte non fu vero. All’ultima, nel giugno 2018, dieci mesi di squalifica, con grado di negligenza ritenuto superiore. In più, ci fu un clamoroso pasticcio sulla retrodatazione che significò otto mesi senza poter giocare. In mezzo ci fu anche un’indagine penale, che fu archiviata.

In pratica, la carriera di Sara Errani ripartì dalla Fed Cup, nel 2019. E non fu facile. Una vicenda come quella lascia il segno, e lo lascia molto fortemente. Le difficoltà, i problemi sempre maggiori al servizio, quelli che sui social sono valsi delle affermazioni deprecabili a destra e a manca. Il tutto mentre, in Paraguay, nei tornei ITF, la gente la incoraggiava, la sosteneva, capiva il momento e l’aiutava. Elementi che le hanno consentito, pian piano, di ripartire. Di ritornare a giocare le Olimpiadi nel 2021, di ricominciare a scalare la classifica, di rientrare nelle 100, di giocare ottimi match. In singolare, ovviamente, i tempi d’oro non sarebbero più tornati (anche se ci è mancato davvero pochissimo che tornasse agli ottavi degli Australia Open proprio nel 2021), ma le ultime versioni della bolognese parlano di una giocatrice che, a livello mentale, è di nuovo con una buonissima serenità. Cosciente dei suoi mezzi, per sua stessa ammissione continua a cercare di voler imparare qualcosa ogni volta, di aggiungere cose. Nel frattempo, però, in doppio è accaduto qualcosa.

Nel senso che, nel frattempo, si è trovata di fianco Jasmine Paolini. Nelle sue parole, “una spugna”, nel senso di una capace di assorbire tante delle cose che le vengono dette su segreti, trucchi e quant’altro di una specialità mai scontata, dove serve affinare il coordinamento come una squadra. E in questo caso si è verificato qualcosa di particolare, cioè che chi aveva (molta) più esperienza si è letteralmente fatta leader, capace di tutto. Il risultato è che dall’esperienza di Sara e dalle ottime capacità da fondo già note di Jasmine è nata una partita tra le più belle della specialità degli ultimi anni, pur persa contro Hsieh/Mertens al terzo turno degli Australian Open. Match, questo, che si dovrebbe mostrare per capire cos’è il doppio, specie nell’interpretazione Errani-Hsieh che quanto a tocco sanno cosa voglia dire. Quello, però, era solo l’inizio. Il dopo, e il meglio, sono stati la vittoria a Roma, che mancava da 12 anni, la finale al Roland Garros, che mancava da 10. E adesso il sogno di una vita. La medaglia olimpica, di qualunque colore sia.

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