Atletica
Alessia Trost: “A 19 anni non ero capace di reggere la visibilità. Dovevo fare 2,05, due eventi mi hanno segnata”
Alessia Trost ha annunciato il proprio ritiro dall’attività agonistica qualche settimana fa. La saltatrice in alto ha salutato a 31 anni, dopo aver saltato due metri il 29 gennaio 2013 a Trinec (al coperto), essersi messa al collo il bronzo ai Mondiali Indoor 2008 e l’argento agli Europei Indoor 2015 (anno in cui fu d’oro agli Europei Under 23), aver trionfato ai Mondiali U18 nel 2009 e ai Mondiali U20 nel 2012. La friulana a partecipato per due volte alle Olimpiadi: quinta a Rio 2016 ed eliminata in qualifica a Tokyo 2020.
Alessia Trost si è raccontata durante l’ultima puntata di Sprint2u, trasmissione del canale YouTube di OA Sport: “Il 2021 è stato l’ultimo anno in cui ho fatto seriamente attività a livello internazionale, poi ho continuato a praticare seriamente, ma si sono susseguite una serie di problematiche dal punto di vista fisico e gestionale. Mi sono spostata un anno in Germania, ma ho fatto fatica ad affrontare quelle metodologie di allenamento, non ero pronta fisicamente a sostenere un gran numero di balzi e l’intensità che veniva richiesta. Mi sono fatta male e ho faticato a riprendermi. Per la prima volta mi sono allenata senza dolori affrontando la stagione indoor 2024, ho fatto un bell’inverno di preparazione, avevo cambiato cilindrata rispetto all’inverno precedente, ma a gennaio il mio tendine d’Achille ha deciso di abbandonarmi e si è rotto a Nantes: è iniziato un processo di riabilitazione, mi sono subito operata, sono stata completamente ferma per otto settimane, ho ricominciato a camminare con le stampelle, poi le ho tolte e a maggio ho iniziato a fare qualcosa che potesse essere assimilato a mettere i piedi in campo, ho fatto un mese di preparazione e ho capito che era arrivato il momento di cambiare strada. Poi è passata l’estate ed eccoci qui“.
La friulana ricoprirà ora il ruolo di allenatrice e si è soffermata su questa nuova vita: “Non ho avuto da sempre il desiderio di diventare allenatrice perché mi sono sempre vista da atleta. Ho sempre avuto come punto di domanda il mio fine carriera e il cosa avrei fatto. Quando mi sono trovata a pensare di rinunciare a fare l’atleta mi sono resa conto di quanto io sia sempre con i piedi in pista, sono nata e cresciuta in campo, sono figlia di un allenatore e frequento i campi di atletica da quando ho sei anni, l’atletica è il mio linguaggio e ho sempre fatto attività anche nei momenti di difficoltà. Le Fiamme Gialle sono un gruppo molto strutturato, nel salto in alto non c’era un allenatore, ho chiesto se ci fosse la possibilità di fare questo percorso, la possibilità c’era e sono stata inserita come tecnico delle Fiamme Gialle nel salto in alto per la sezione giovanile. Ci sarà tutto il percorso da fare dal punto di vista della formazione, ma mi sono resa conto che mi piace. Sto seguendo un gruppo da costruire: all’interno delle Fiamme Gialle, nella sezione giovanile, abbiamo un’organizzazione ben definita e ci sono tecnici per ogni specialità, abbiamo un’ampia base di esordienti e ragazzi. La cosa che mi ha spinto a fare questo passaggio era il fatto che facevo fatica a mettermi al centro della mia attività. Mi sono scoperta più a mio agio a guardare quello che fanno gli altri rispetto a quello che facevo io da atleta, è stato tutto molto naturale. Detta così può sembrare semplice, ma non lo è stato. Prendere atto che non si può più fare l’atleta ha richiesto tempo, le Fiamme Gialle mi hanno permesso di prendere questo tempo“.
La saltatrice in alto ha ripercorso parte della sua carriera: “Ci sono stati due grandi eventi nella mia vita che hanno inciso sull’attività sportiva e me ne sono resa conto soltanto a posteriori: la morte di mia mamma e poi di Gianfranco (Chessa, il suo primo allenatore, n.d.r.), che per me è stato come un padre e che, adesso che mi metto nei panni di allenatore, è nei miei pensieri quotidianamente. Questi due eventi hanno cambiato le priorità e le prospettive, mi hanno messo in uno stato d’animo non utile per gareggiare. Poi c’è stata la tensione che mi ha retto fino a un certo punto: io in quegli anni ero un’atleta su cui la Federazione riponeva un gran numero di speranze e questo mi metteva nella condizione di non poter cedere, ho retto fino a un certo punto, non sono capace di sostenere la visibilità, non avevo il background per farlo a 19 anni, non conoscevo il mondo dello sport, si sono sommate cose che adesso gestirei in maniera diversa. Tutto questo aveva su di me una ricaduta importante, fino a un certo punto ho retto poi l’esposizione mi ha portato ad avere molte opinioni attorno a me su quello che facevo. Io ero una persona che si faceva influenzare dagli altri e questo ha fatto sì che cambiassi tanti allenatori, che avessi molti dubbi sul lavoro che stavo facendo e la conseguenza è che non ho mai avuto continuità tecnica e di condizione. Ho cambiato direzione tecnica e allenatore molto spesso e questo mi ha tolto delle sicurezze in campo. La somma delle due cose ha portato inevitabilmente a un risultato negativo. Se potessi tornare indietro baserei molto sulla sicurezza del mio salto“.
Alessia Trost ha poi continuato: “Io sono molto contenta della mia esperienza. Dal punto di vista dei risultati sono mancati dei picchi. Il mio curriculum sportivo dice tutto bellissimo, ma facendo delle proiezioni dovevo fare 2.05 e vincere molto di più a livello internazionale. Ho fatto questa riflessione: secondo me c’è molta attenzione alla crescita e alla formazione dei ragazzi e dei tecnici fino a un certo punto, poi da noi manca un sistema professionale, non ci sono atleti professionisti al di fuori dei gruppi sportivi, manca il passaggio dall’atletica come passione all’atletica come attività imprenditoriale. L’atleta fatica a diventare manager di se stesso, è il cambio di prospettiva che ti mette nelle condizioni di guardarti dall’esterno e di capire di cosa hai bisogno. L’atleta si affida totalmente all’allenatore. C’è quindi bisogno di fare uno step di sviluppo sia per gli atleti che per gli allenatori, che devono diventare dei gestori dell’attività degli atleti. Un atleta che va forte da under 23 farà un passaggio e inizierà a partecipare a gare più importanti e la sua attività diventa più manageriale, la figura dell’allenatore diventerà ancora più rilevante dal punto di vista tecnico ma deve anche ridursi per fare spazio ad altro. Affinché l’atleta ottenga risultati di grande livello c’è bisogno di una sinergia tra più figure e va implementata, ma si può fare solo se le persone vengono compensate e questo nell’atletica in Italia spesso non è possibile. Credo che con la nuova legge sul lavoro sportivo sarà possibile guadagnare di più, magari gli allenatori saranno riconosciuti di più dal punto di vista economico“.
L’azzurra ritorna sul suo passato: “Io ho fatto medaglie da piccola, nel salto in alto ho vinto sempre. Dentro di me c’erano le scimmie che battevano i piatti, pensavo di sapere tutto e invece non sapevo niente, questo mi ha fregato. Mi ha impedito di vedere come strutturare la mia attività da professionista. Il momento più bello è stato a Praga nel 2015, 1.97, il salto più alto della mia carriera, il salto tecnicamente più bello. Medaglia d’argento agli Europei. Il momento più brutto sono state due eliminazioni in qualificazione ai Mondiali 2017 e 2019, terribile il momento in cui sono scesa dalla pedana: un’istante che si è ripetuto due volte, il momento in cui scendi dal saccone e la gara è ancora in corso di svolgimento attorno a te è davvero molto brutto“.
Non manca uno sguardo al futuro: “Il mio sogno è quello di poter permettere ai ragazzi di essere in grado di saltare con il loro stile e che questo sia in linea con la loro vita. Provo tanta ammirazione per i ragazzi della Nazionale di oggi perché sono molto esposti, spero che l’atletica italiana continui a ricoprire questo ruolo. Ho capito che era arrivato il momento di smettere quando mi chiedevo come facessero loro e ho capito che non ero più in grado di essere in questo contesto“.