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Il mito Giovanni Pellielo: “Da orfano ho provato la solitudine. Voglio evitare la maledizione di Beethoven”

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Giovanni Pellielo
Giovanni Pellielo/ LaPresse

Spesso quando si parla di grandi Campioni basta tirare fuori qualche numero. E in questo Giovanni Pellielo ha pochi eguali. La leggenda del tiro a volo (specialità trap) vanta in carriera la bellezza di quattro medaglie olimpiche individuali, diciassette titoli mondiali (di cui cinque individuali) e diciannove titoli europei (tre individuali). Un palmarès ricco, figlio di un cammino lunghissimo, cominciato agli inizi degli anni Novanta e non ancora terminato.

Sì perché l’ambizione di “Johnny”, classe 1970, è infatti quella di proseguire l’attività da agonista e partecipare alle Olimpiadi di Los Angeles 2028. Un obiettivo dai contorni storici, visto che si tratterebbe della sua nona partecipazione ad una rassegna a cinque cerchi, qualcosa di mai visto nel nostro Paese. Ricordiamo infatti che il tiratore al momento è l’italiano con più presenze olimpiche insieme ai fratelli Piero e Raimondo d’Inzeo (specialità equitazione). Una partecipazione in terra nordamericana gli consentirebbe di scrivere dunque un’altra pagina indelebile dello sport italiano.

Ma Giovanni Pellielo non ha deciso di proseguire la sua corsa per il record, per i numeri, o per una medaglia. Dietro c’è qualcosa di molto più radicato, strettamente legato alla sfera più intima e personale.

Giovanni Pellielo, a Parigi 2024 ha dichiarato che “Ad ogni gara imparo sempre qualcosa di nuovo”. Una frase particolarmente stimolante da sentire per un atleta dall’esperienza così lunga come la sua. Cosa gli ha insegnato l’ultima rassegna a cinque cerchi?
Questa Olimpiade è stata di insegnamento, perché era la prima senza la famiglia, senza mia madre che è mancata un anno fa. Si vive un po’ la situazione del bambino orfano, ed è qualcosa di particolare. Io ho vissuto mezzo secolo con mia madre; era la prima tifosa, la prima sostenitrice, la prima a lenire le ferite ed a condividere le gioie. Ho imparato a disputare una gara così importante vivendo una condizione interiore di grande solitudine, cosa che prima non avevo mai vissuto. Ho sempre sentito il sostegno di tutte le persone del mondo del tiro e della Federazione, ma non potevo più attuare quella condivisione con la persona che ho amato di più al mondo. Diciamo che ho imparato a muovere i primi passi da solo. Sembra divertente da dire, ma non è così banale. Tutti abbiamo nel corso della nostra esistenza dei riferimenti. L’uomo è un animale sociale, abbiamo le persone con cui ci relazioniamo quotidianamente, con cui ci confortiamo e litighiamo. Tutto questo viene meno quando si diventa orfani. E si capiscono tante cose. Quindi anche in una competizione così difficile ed impegnativa, dove fino a due piattelli dalla fine ero lì, primo, ho imparato a vivere quella dimensione nella solitudine più totale“.

Il tiro a volo è sport di precisione e di concentrazione, dove è molto complicato fare i conti con i cosidetti “pensieri intrusivi”. Di solito infatti, almeno nella visione popolare, un giocatore di calcio può trovare lo sfogo in campo, magari performando meglio del solito proprio per scacciare i fantasmi interiori. Nel tiro a volo non è così, perché ogni pensiero al di fuori del poligono può davvero compromettere la gara. Lei come si rapporta con questa peculiarità della disciplina?
In altri sport si può contare nell’eventualità dell’errore altrui, come per esempio nel tennis. Da noi la macchina che lancia il bersaglio lo fa sempre allo stesso modo, in quanto è una macchina. Ci sono momenti nella vita in cui possono raggiungerci dei pensieri particolari; in questo caso l’arma vincente non è quella di allontanarli, perché vincono loro. Bisogna farseli amici. Ecco perché dicevo di aver imparato a vivere in questa dimensione per la prima volta. Perché questi pensieri che prima non erano di consuetudine, adesso lo sono diventati, mentre prima non avevano mai fatto parte della mia esistenza. La dimensione della solitudine assoluta, come quella che introduceva Carlos Castaneda nei suoi trattati, è una dimensione che si può vivere solo nel momento in cui la profezia si determina, quindi quando sei veramente solo”.

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“È vero che quando l’atleta va in pedana è solo, ma si tratta di una solitudine momentanea. La solitudine assoluta crea dei vuoti che sono fatti da pensieri; e questi pensieri non hanno mai fatto parte della tua vita. Ora ci sono e sono particolari perché hanno a che fare con l’amore, l’amore che si vive in una nuova era, in un nuovo spazio temporale, determinato dallo scorrere dell’esistenza e della vita, ma dall’altra parte dall’assenza totale di avere un confronto. Dal momento in cui non c’è la possibilità di contropartita, non c’è più possibilità di avere una risposta, allora intervengono pensieri univoci che vanno in una sola direzione che è la tua. Le risposte che uno riesce a darsi sono delle risposte con le quali devi iniziare a fare pace, prima o poi. Questo travaglio interiore deve diventare come diceva Castaneda il nostro miglior compagno di viaggio. E da quel momento capirai che nulla ha più valore. Ed effettivamente è vero, nulla ha più valore; non parlo di importanza, ma di valore. Davanti alla morte si diventa dei guerrieri perché si affronta a viso aperto questa realtà, alla fine la si prende per mano e deve diventare la tua migliore compagna di viaggio. Quando questo si realizza, nulla ha più valore ma non hai anche più paura di niente. Ecco perché imparo cose nuove“.

E dietro Los Angeles c’è proprio questa ambizione di partecipare ad un’altra Olimpiade con una consapevolezza ancora nuova?
C’è la promessa che ho fatta a mia mamma. Lei mi ha chiesto di non smettere, di andare avanti e di dimostrare a me stesso e a chi mi dà fiducia che l’età è qualcosa di relativo. La grande sfida è questa. Già il fatto di combattere determina la resilienza e lo spirito di un guerriero, io combatterò fino alla fine. Riuscirci sarebbe una cosa straordinaria. Poi bisogna smettere, alla nona sinfonia bisogna fermarsi perché altrimenti avviene una maledizione“.

Questo suo parallelismo musicale, rilasciato sempre nel post gara di Parigi, è diventato abbastanza famoso…
“Sì, Beethoven aveva tentato di comporre la sua decina, ma sono morti tutti

Mahler invece con la decima sinfonia rompeva il muro del romanticismo proiettando la musica nella contemporaneità novecentesca…
Io, essendo tradizionalista, preferisco quelle dell’Ottocento“.

Da Barcellona 1992 a Parigi 2024, quale Olimpiade le è rimasta più a cuore?
Sono state tutte estremamente entusiasmanti, compresa l’ultima. Diciamo che andare sul podio olimpico ad Atene ha rappresento la corona d’alloro migliore. Certamente non dimentico tutte le altre. Sono tutte straordinarie per il calore, penso a Rio, ed affascinanti. Ma ad Atene è nata l’Olimpiade, mi sentivo proprio un eroe greco“.

Parigi è stata un’Olimpiade molto chiacchierata anche per mere questioni organizzative, pensiamo alle condizioni del Villaggio Olimpico o la lunghissima querelle sulla balneabilità della Senna. Lei che è un veterano di lungo corso, come ha trovato l’organizzazione?
Non siamo mai stati al villaggio in quanto impegnati a Châteauroux; personalmente ho apprezzato tante cose e non ne ho apprezzate altre. Per esempio ho visto l’inaugurazione, e la rappresentazione dell’Ultima Cena da buon fedele credente e praticante mi ha lasciato abbastanza perplesso. Da noi l’organizzazione è stata ottima”.

Secondo molti l’ambizione era quella di superare Pechino 2008, da molti considerata perfetta…
“Pechino è stata quella più straordinariamente preparata sotto tutti i profili”.

Le Olimpiadi sono un evento straordinario ma che, specie al tempo dei social, richiamano anche alcune problematiche che ciclicamente ritornano riguardo alcuni sport. Per una parte di opinione pubblica, lo sport è riconosciuto come tale solo se si ha uno sforzo fisico palese o se, banalmente, avviene in squadra. Eppure ci sono discipline come appunto il tiro a volo che più di altre riescono ad unire gesto fisico al controllo mentale, molto importante a livello propedeutico, anche per i più giovani. Qual è la suo pensiero?
Partiamo da un presupposto. Il tiro è uno sport educativo a livello di educazione civica. Si insegna fin dai quattordici anni l’uso proprio di uno strumento che è un fucile, normalmente considerato secondo l’immaginario comune strumento di morte. Non lo è in realtà. Ogni giorno in tv sentiamo parlare di omicidi fatti con l’acido, con il coltello. Al villaggio olimpico si possono riconoscere categorie di atleti solo guardandoli, i tiratori si riconoscono subito: hanno aplomb, modo di comportarsi, equilibrio e controllo di ogni cosa che riguarda la loro vita che esula dall’ordinario. Noi poi abbiamo un porto d’armi, documento rilasciato dalla questura che attesta che siamo persone per bene. È l’unica disciplina sportiva nella quale si viene censiti a livello di pubblica sicurezza. Chi fa tiro a volo è una persona per bene. Una famiglia porta quindi un ragazzino in un luogo dove ci sono solo persone per bene, persone conosciute dallo Stato e che hanno interesse a comportarsi bene altrimenti gli vengono confiscate le armi e il porto d’armi. Nessuno è pregiudicato, delinquente, fa uso di sostanze oppure ha rubato: immagini rispetto a quello che c’è nel mondo quanta tranquillità può avere una famiglia nel portare un giovane in un ambiente come questo. Il nostro, così come altri ovviamente, è inoltre uno degli sport più sicuri. Non è un dettaglio visto i rischi che si corrono da altre parti. Malgrado l’uso dell’arma, non ho mai letto che qualcuno abbia sparato addosso ad un altro, per esempio. Non credo sia mai successo”. 

Non esistono casi simili nelle cronache…
“Ecco. Poi si sposa l’aspetto fisico con quello psicologico. Io in finale alle Olimpiadi avevo 200 battiti al minuto ed ero fermo. L’adrenalina fa capire quanto la testa influenzi il fisico. Bisogna avere un controllo dell’intera persona che necessita di maturità, di applicazione, dedizione ed insegnamento. È una disciplina che io paragono molto ad un atto d’amore. Lì bisogna essere attenti ad ogni cosa, perché diventa sublime nel momento in cui si ricerca il particolare. Ecco, noi cerchiamo sempre il particolare, il dettaglio. In un millimetro di spessore del legno del mio calcio ho dieci misure. La misura allora diventa decimale, impercettibile per le persone comuni. E questo è affascinante. Come fa uno ad accorgersi se riuscirà a valutare queste cose? Con la sensibilità; uno si può scoprire talento solo provando. Io invito tutti a praticare questa disciplina perché si può capire se si hanno delle sensibilità particolari oppure no“.

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