Sci Alpino
Il mito Alberto Tomba: “Ero uno di collina, potevo fare altri 4-5 anni. A Sierra Nevada mi fischiavano, poi…”
Alberto Tomba è intervenuto come ospite nel corso della sesta puntata di Salotto Bianco, trasmissione di approfondimento sulle discipline olimpiche invernali visibile sul canale Youtube di OA Sport, condotta da Dario Puppo e Massimiliano Ambesi. Uno dei più grandi sportivi italiani di tutti i tempi ha ripercorso alcune delle tappe più significative della sua carriera leggendaria, in attesa di seguire dal vivo lo slalom speciale odierno di Coppa del Mondo a Madonna di Campiglio.
“Al momento sono fermo, riposo, sennò salgo con le pelli. Sono tranquillo, quando è freddo vengo invitato di qua e di là e non è facile stare in forma. Comunque a breve ricomincio. Sull’Appennino ha nevicato tempo fa, ci sarebbe bisogno della neve che è venuta qui a Campiglio e speriamo che arrivi presti. Ho dei bei ricordi: la Croce del Corno alle Scale, il Cimone, Cerreto Laghi, le mie prime gare giovanili. Questo è l’Appennino di casa mia“, esordisce Tomba.
Sulle vittorie ed i podi ottenuti in carriera a Madonna di Campiglio: “3 è il numero perfetto. 1987, 1988 e 1995 gli anni dei miei tre successi sulla 3-Tre. A dicembre 1988 ci furono circa 40 mila paganti, si gareggiava la domenica ma la gente ci metteva due giorni per tornare a casa e quindi gli anni successivi è stata spostata al lunedì e al martedì. Mi dispiace non aver corso la notturna, che c’è stata poi nei primi anni 2000, ma va bene così. La mia prima volta qui? Nel 1985, prima gara di Coppa del Mondo con il pettorale 50. Mi qualificai, poi però sono uscito nella seconda manche. Nel 1986 arrivò poi in Alta Badia quel podio tricolore con Pramotton, Tomba e Totsch“.
“Come riuscivo a concentrarmi facendo piroette in pista e chiamando la gente poco prima della gara? Non lo so neanch’io. Forse ero di città, di collina, non ero di montagna e quindi non avevo la responsabilità di dover vincere. Poi l’obbligo di vincere arrivò dopo, a Calgary 1988, ma prima era tutto un gioco ed un divertimento. E questo mi ha aiutato molto prima del cancelletto, avevo l’adrenalina a mille. Scherzavo e giocavo, ma non per fare il clown come tanti dicevano. Mi dovevo caricare così io“, prosegue il 58enne emiliano.
Sulla differenza di approccio tra gli slalom in notturna e quelli tradizionali in mattinata: “Non c’è una via di mezzo? La prima manche a volte la facevamo alle 9, non si poteva fare con più calma magari alle 11? Poi le notturne, mi ricordo la prima al Sestriere in cui vinsi davanti a Fogdoe nel dicembre del 1994. Poi ci fu Schladming e qui a Campiglio nei primi anni 2000. Grandi ricordi. Non sarebbe stato male fare tutte le gare di sera…“.
“Adesso c’è di moda questo docu-film sulla Valanga Azzurra. Stenmark ha corso qui, anche Piero Gros, Paolo De Chiesa, Gustav Thoeni. I miei miti del passato quando correvo io. Funziona così anche per quelli di oggi. Mi caricavo con loro già a vederli, immagino che oggi accada con me. Coincide molto perché è uno sport individuale, non di squadra. Sei tu al cancelletto, devi anche inventarti una strategia ed una tattica giusta per impostare bene la gara, dato che c’è anche la seconda manche. Ecco perché a volte ero indietro nella prima manche. Cambia molto anche con le condizioni della neve e di come viene preparata, oggi è migliorata la situazione. Negli anni in cui ho smesso arrivò l’inversione dei 30, prima era dei 15 ed una volta era addirittura dei 5“, aggiunge il tre volte campione olimpico.
Sulla sua attenzione ai piccoli dettagli prima di ogni gara: “Il guanto, il parastinco, le protezioni, la partenza dal cancelletto. Guardavi già la terza porta, non la prima, perché devi essere già avanti. Ogni gara aveva il suo perché e dovevi farti amica la pista, studiando il percorso ed i punti chiave, quelli difficili dove l’avversario sbagliava. Alla fine, che arrancavano tutti affaticati, in due curve riuscivi a prendere mezzo secondo“.
“Negli anni passati ero insieme a Marc Girardelli qui a guardare il Canalone Miramonti, pieno di grandi ricordi di quegli anni d’oro. Lo ringrazio ancora per le sue parole nel mio docu-film, anche perché alle Olimpiadi di Albertville 1992 in quel gigante insidioso lo beffai nelle ultime porte. Poi nel 1994 mi ricordo quel freddo polare a Lillehammer, rimontando da 12° a 2° nello slalom. Nel 1995 a Bormio in Coppa del Mondo, i Mondiali di Sierra Nevada 1996, quando lui si ritirò. Io feci invece lo sforzo di arrivare a Sestriere 1997 e fino a Nagano 1998, con una gran caduta in gigante, poi ci ho provato nello slalom ma niente. Dopo due settimane ho vinto la Finale di Coppa del Mondo a Crans Montana il 15 marzo 1998 con il pettorale numero 9. Ho cominciato sulla Montagnetta di San Siro con il 9 e ho finito con il 9 a Crans Montana. C’è il rammarico che potevo fare ancora due-tre anni, forse anche quattro-cinque, perché a 31 anni si è giovani soprattutto oggi“, racconta l’ex fenomeno nativo di Bologna.
Sul ricordo più bello della carriera: “I Mondiali di Sierra Nevada 1996, fantastici. Poco prima rilasciai in Germania un’intervista che hanno frainteso, anche a causa del traduttore. Dissi che c’era il Marocco vicino ed il clima poteva cambiare, e così fu. Comunque niente di che, io amo la Spagna, ma c’era un sacco di gente a fischiarmi in partenza. Poi sul podio con la bandiera italiana e spagnola, si sono un po’ calmati. Due giorni dopo altro oro in slalom…“.