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Cinque Cerchi di Neve: l’incredibile vittoria di Steven Bradbury
Per una volta, facciamo un’eccezione. Se nelle scorse puntate di questa rubrica abbiamo trattato sempre di campioni azzurri, dai miti (Nino Bibbia ed Eugenio Monti), alle sorprese (Daniela Ceccarelli e Paola Magoni), oggi voliamo dall’altra parte del mondo, nella lontana Australia, per parlare di un ragazzo che, a suo modo, è stato mito e sorpresa delle Olimpiadi Invernali in un colpo solo: chi, se non Steven Bradbury?
Qualcuno l’ha definita la vittoria più incredibile nella storia dei Giochi Olimpici in senso assoluto, non solo quelli d’inverno: effettivamente, è difficile contraddire questa affermazione. Siamo ai 1000 metri dello short track a Salt Lake City 2002: questo ventinovenne australiano è reduce da una serie di stagioni a dir poco sfortunate. Dopo il bronzo olimpico nella staffetta a Lillehammer 1994, che pareva destinarlo ad una grande carriera, rischia suo malgrado non solo di compromettere la propria vita agonistica, ma anche di morire in almeno due circostanze: la prima, quando a Montreal una lama del valdostano Mirko Vuillermin (altro campione di sfortuna) gli recide l’arteria femorale facendogli perdere 4 litri di sangue; la seconda, con una frattura del collo in allenamento nel 2000. Gli infortuni, si sa, stroncano anche i talenti più puri: se poi sono vicende così drammatiche, diventa veramente difficile per l’atleta rientrare ad altissimi livelli. Difatti, il buon Bradbury sembra lontano dai migliori sul palcoscenico internazionale e non riesce a ottenere risultati di rilievo. Ma si arriva, appunto, a Salt Lake City 2002.
Quarti di finale: Steven abbondantemente ultimo nella sua batteria, ma il giapponese Tamura viene toccato da Marc Gagnon e scivola fuori; il canadese viene successivamente squalificato per aver causato l’incidente e così Bradbury si qualifica al secondo posto, accedendo alle semifinali.
Semifinale, Bradbury contro Li Jiajun, Mathieu Turcotte, Kim Dong-Sung e Satoru Terao. Solito copione, si parte male, in fondo al gruppo: il sudcoreano è però il primo ad autoeliminarsi, tuttavia il distacco dell’australiano appare insormontabile nei confronti dei battistrada. All’ultima curva, giù Turcotte e Jiajiun, Bradbury secondo accede in finale (ci arriverà addirittura in prima posizione, grazie ad una serie di incomprensibili squalifiche e penalizzazioni decretate dalla giuria).
Finale: e cosa si vuol fare contro i già citati Jajiun e Turcotte, il sudcoreano Ahn Juhn-Soo e soprattutto Apolo Anton Ohno, il giovanissimo signor short track, l’idolo di casa? Zero chance. In effetti la differenza di ritmo è evidente sin dalle prime pattinate, Bradbury non c’entra nulla con questi atleti…i quali però, ancora una volta, si autoeliminano. Giù il cinese all’ultima curva, dopo una serie di spallate con Ohno: lo statunitense, vedendosi sfuggire l’oro davanti agli occhi, aggancia letteralmente il sudcoreano e lo sbatte a terra, coinvolgendo nella caduta anche Turcotte. Tutti col muso sul ghiaccio. Bradbury sopraggiunge, al suo passo e col suo stile, dopo qualche secondo e taglia il traguardo incredulo, trovandosi in un amen dall’essere tagliato fuori per la lotta delle medaglie ad un incredibile, meraviglioso oro, il primo nella storia dei Giochi d’Inverno per l’intero emisfero australe.
Quali sono le lezioni della storia di Steven Bradbury? Almeno un paio. La prima: chiamatelo destino o chiamatelo karma, ma in certi casi una grande sfortuna si compensa con una grande fortuna, e mai esempio fu più azzeccato della carriera di questo ragazzo. La seconda: le Olimpiadi, come tutte le gare che non fanno parte di un circuito, non sono sempre vinte dai più forti o dai più veloci. Certo, nell’immaginario collettivo il campione olimpico sarà sempre l’atleta simbolo di quella disciplina, e vincere quella medaglia, per l’atleta come per il tifoso, è la più grande delle gioie. Troppo spesso, tuttavia, ci si dimentica degli “anti Bradbury“: di quei campioni che hanno vissuto una carriera strepitosa, vincendo gare su gare, e mancando, anche per sfortuna e non solo per demerito, solamente il bersaglio grosso. “Fortuna” e “sfortuna” fanno parte dello sport, come della vita, e talvolta stravolgono il merito e i valori acquisiti con anni di vittorie o di insuccessi, di allenamento, di preparazione: in un giorno può andarti tutto bene, in un altro può girare tutto storto. Se quel giorno, però, è quello della prova a cinque cerchi, tuo malgrado ti ritroverai catapultato nella storia.
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marco.regazzoni@olimpiazzurra.com