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Boxe: Tyson Fury, il britannico che vuole tornare sul trono del Mondo

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Il nome di battesimo è Tyson perché i genitori hanno voluto rendere omaggio a Iron Mike, il cognome è Fury, e potrebbe essere qualcosa di corrispondente anche alla realtà, visto che sul ring il trentunenne di Manchester è, appunto, una furia. Mai sconfitto, l’uomo di Manchester che ha nel sangue anche l’Irlanda vuole sfatare anche l’ultimo tabù: trasformare il pareggio contro Deontay Wilder dello Staples Center di Los Angeles del 2018 in una vittoria al gusto di titolo mondiale WBC.

Il sangue irlandese ha consentito a Fury di rappresentare, in passato, anche questo Paese. Il paradosso si è creato con la qualificazione alle Olimpiadi di Pechino 2008, tentata tanto con la bandiera dell’Irlanda quanto con quella della Gran Bretagna. 31 vittorie, di cui 26 per KO, e 4 sconfitte: questo recita il suo record da dilettante, una carriera interrotta per passare al professionismo perché non sapeva se a Londra 2012 avrebbe avuto un’altra chance.

La nuova possibilità olimpica non l’ha avuta, ma Fury si è trovato per le mani, anzi per i pugni, tantissimo, fin dal primo successo da professionista al National Ice Centre di Nottingham contro l’ungherese Bela Gyongyosi. Dopo quell’esordio del 6 dicembre 2008, “The Gipsy King” ha cominciato la sua scalata: campione inglese dei pesi massimi contro John McDermott nel 2009, titolo britannico e del Commonwealth contro Dereck Chisora nel 2011, titolo irlandese contro Martin Rogan nel 2012.

Di qui sono iniziate anche le battaglie su scala internazionale: in quello stesso anno (7 luglio) l’americano Vinny Maddalone è sconfitto per la cintura Intercontinentale WBO. Accanto alle sfide sul ring si sono accompagnate, però, anche quelle con la sua sfera privata: in particolare, è finito nell’occhio del ciclone per aver definito “gay lovers”, in maniera spregiativa, quel David Price che gli tolse Pechino 2008 e l’ex campione dei mediomassimi Tony Bellew, poi apparso in “Creed – Nato per combattere” (in inglese solo “Creed“).

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Nel 2015, di nuovo contro Chisora, ha aggiunto anche il titolo europeo oltre a quelli Internazionale WBO e britannico; la cintura WBO se l’è tenuta contro il rumeno-tedesco Christian Hammer, ma per lui, il 28 novembre a Dusseldorf, è arrivato qualcosa di più. Quel di più si chiama titolo mondiale WBA, IBF, WBO e IBO contro l’ucraino Wladimir Klitschko, non proprio l’ultimo arrivato, oltre che uno dei pochi a rimanere in piedi fino alla fine contro Fury.

Di lì, i guai. Il titolo IBF è durato 10 giorni, perché la clausola di rematch Fury-Klitschko precludeva il combattimento con il pugile indicato dall’ente pugilistico, Vyacheslav Glazkov, anche lui ucraino. A quest’episodio sono seguiti, nell’ordine: dichiarazioni utili solo a far arrabbiare, e molto, tutta la comunità LGBT, tanto da costringere Fury a fare retromarcia, poi la positività al nandrolone sua e del cugino Hughie su un test di febbraio 2015, i guai con la cocaina e quelli con la depressione. A quel punto ha deciso di mollare tutti i titoli per curarsi.

Tornato a combattere nel 2018, non senza lotte furibonde contro l’agenzia antidoping britannica al termine delle quali la squalifica è stata retrodatata a dicembre 2015, Fury ha sfidato Deontay Wilder per la prima volta dopo due combattimenti preparatori, il secondo dei quali contro Francesco Pianeta, sconfitto, ma non mandato KO. Il finale del primo Fury-Wilder è noto: parità e cintura WBC sempre a Wilder. Rientrato in possesso del titolo Intercontinentale WBO contro il tedesco Tom Schwarz, è salito per l’ultima volta sul ring contro lo svedese Otto Wallin, che lo ha duramente impegnato nonostante il verdetto unanime, tanto da ricevere molti complimenti da “The Gipsy King“.

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federico.rossini@oasport.it

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Foto: LaPresse

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