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Basket
Giuseppe Poeta: “Nella situazione attuale è assurdo giudicare le persone. Il bello del basket? Multirazziale e ti forma mentalmente”
A quasi 35 anni, Giuseppe Poeta, per tutti Peppe, è oramai uno degli uomini più esperti della Serie A. 120 presenze in Nazionale, ha anche disputato gli Europei del 2013 e il Preolimpico, a Torino, nel 2016. Nel ristretto (ma non troppo) novero di italiani che ha fatto tappa in Spagna, quest’anno stava disputando una stagione d’impatto a Reggio Emilia prima della pausa forzata. Abbiamo raggiunto Poeta per via telefonica: ci ha raccontato le fasi principali della sua carriera e delle riflessioni sul periodo attuale.
Va fatta una premessa doverosa: questa intervista è stata realizzata prima che il campionato di Serie A venisse dichiarato concluso.
Che bilancio si può fare della stagione di Reggio Emilia?
“E’ difficile trarre un bilancio quando mancano ancora 12 partite nella stagione. Sicuramente sapevamo di dover trovare una nuova quadratura del cerchio, una nuova chimica, perché la squadra era del tutto nuova, e anche l’allenatore era nuovo. Abbiamo avuto alti e bassi, contavamo molto sul girone di ritorno per trovare una costanza di rendimento migliore di quella del girone d’andata, e purtroppo è successo quello che è successo”.
Ed è una situazione effettivamente del tutto nuova, non si è mai verificato che un campionato venisse interrotto così a lungo. Come state vivendo questa situazione?
“La stiamo vivendo come tutti, è una cosa nuova, mai accaduta prima. Proviamo a seguire gli ordini del Governo, stare in casa e aspettare nuove direttive. Noi a Reggio Emilia, nel nostro piccolo, abbiamo fatto un video sulla pagina Facebook della squadra per cercare di far strappare un sorriso ai nostri tifosi che anche loro vivono questa difficoltà”.
Alcuni dei tuoi compagni americani avevano espresso delle rimostranze sul fatto di restare a Reggio Emilia, perché da una parte non si sapeva bene cosa stesse succedendo e dall’altra è anche arrivata la richiesta di ritornare negli States in tempi brevi, altrimenti avrebbero rischiato di rimanere bloccati.
“In questo caso ognuno ragiona come si sente di ragionare, in base ai propri affetti, o alle proprie esigenze. Due americani (Johnson-Odom e Owens, N.d.R.) sono ancora qui, sono contenti, stanno bene qui, lo preferiscono e si sentono più al sicuro, e altri due che sono andati via (Upshaw e Cherry, N.d.R.) perché avevano famiglia e figli piccoli e volevano far sentire la vicinanza alle loro famiglie. Ognuno ha una situazione familiare diversa, e quindi non va giudicato nessuno per il comportamento che ha avuto in questa situazione straordinaria. Fra l’altro non si può assolutamente prendere la parte di pro e di contro, perché magari uno può avere i figli piccoli, un genitore che sta meno bene, o chi si sente più sicuro a casa. E’ una situazione talmente straordinaria che fare giudizi sul comportamento delle persone è assurdo”.
Che opinione ti sei fatto di tutta la serie di rinvii e cancellazioni degli eventi dei prossimi mesi?
“Oggi come oggi ci sono quattro miliardi di persone che sono a casa, il rinvio delle manifestazioni sportive è la cosa più logica, sperando che si potrà ricominciare. Là dove non si potesse, ce ne faremo una ragione e penseremo al prossimo anno”.
Nei tuoi inizi a Battipaglia e Salerno chi e cosa è stato importante per farti capire che saresti arrivato ai livelli più alti?
“In realtà non l’ho mai capito, nel senso che ho sempre vissuto alla giornata godendomi il momento quando ho giocato nelle serie minori, fino poi ad arrivare alla Serie A. Trovare una persona su tutte che è stata importante per me è difficile, non ci riesco, sono stati tutti importanti a loro modo, ho avuto tanti allenatori molto bravi che hanno creduto in me e tanti compagni di squadra che mi hanno indicato la strada. Indicandone uno farei un torto a qualcun altro. Ho avuto una carriera molto particolare perché sono arrivato fino alla Nazionale partendo dalla C1 e non è una cosa da tutti i giorni, però sono stato fortunato e mi godo la mia fortuna. Cerco di essere consapevole di essere un privilegiato e provo a giocare con il sorriso, sapendo questo. Poi ho fatto anche un anno a Veroli molto importante, di transizione, e grazie a quell’anno (2005-2006, N.d.R.) qualche riflettore della Serie A si è puntato verso di me”.
E poi da lì è arrivata Teramo, da cui sono passati tanti che poi si sono rivelati grandi giocatori, i vari Brandon Brown, Clay Tucker, Drake Diener, Jaycee Carroll…
“Ho avuto la fortuna di giocare con tanti giocatori molto forti nella mia carriera e questi lo sono assolutamente, sono giocatori che sono stati molto importanti per me e sono stati veramente anni importanti per la mia crescita ancor più come giocatore che come persona”.
Sono stati anche gli anni delle prime esperienze nelle Coppe europee, con Teramo che riuscì a entrare in ULEB Cup (l’odierna EuroCup) nell’annata 2009-2010.
“Anche per questo sono stati anni importanti, quelli dai 21 ai 25: l’esordio in A, l’esordio nelle Coppe, l’esordio in Nazionale”.
Dal 2010 la Virtus Bologna, in cui ci sono state anche delle storie un po’ particolari. Petteri Koponen era già allora molto forte: si può dire che sia tra i più forti con cui hai giocato?
“Stilare una classifica è ingeneroso, ma di sicuro è un ottimo giocatore ed è stato una delle guardie più forti con cui ho giocato. Gli anni di Bologna sono stati molto belli, molto intensi, ho fatto il capitano di una squadra per cui tifavo da piccolo, quindi sono stato molto molto contento”.
Ci sono stati anche due personaggi particolari: Jared Homan, che ebbe screzi con l’allenatore di allora, Alex Finelli, e Chris Douglas-Roberts, che a un certo punto tirò fuori dei giudizi un po’ curiosi sul cibo in Italia.
“Per quello che riguarda Homan sono cose che possono succedere. Su Douglas-Roberts, quelle sono storie che a volte sono un po’ accentuate dai rotocalchi, nel senso che parliamo di un americano che era al primo anno in Italia, che non era mai stato neanche in Europa. Era un giocatore di grande talento, che aveva giocato solo in NBA e si è trovato in un altro mondo come spesso capita. Magari poi queste sono tra le tante mille storie che non vengono raccontate, che sembrano assurde e invece rappresentano la quotidianità”.
Poi sei andato in Spagna.
“Quella è un’esperienza bellissima, in una delle squadre più forti d’Europa, nel momento migliore della mia carriera, a 28 anni, con uno dei migliori allenatori d’Europa come Sergio Scariolo, nel campionato forse più forte d’Europa. Il Baskonia è stato forse la squadra più forte in cui abbia mai giocato. Sono contento dell’esperienza fatta e se avessi potuto l’avrei fatta anche prima, anzi, consiglio ai giovani di oggi di provare a fare un’esperienza all’estero, perché ti da una visione diversa di tutto, di quando gli americani o gli stranieri vengono a giocare qua, una visione più completa”.
Quanto sono diversi il mondo della Liga ACB e della Serie A?
“Vent’anni fa la Serie A era molto più avanti rispetto all’ACB, oggi è il contrario. Già ai miei tempi c’era stato il sorpasso. Sono più bravi a vendere il prodotto, hanno due squadre che trainano molto bene il prodotto come Real Madrid e Barcellona, che obiettivamente noi non abbiamo, e hanno tantissime strutture che noi non abbiamo”.
Chi ti ha convinto a tornare in Italia, a Trento?
“In realtà non mi ha convinto nessuno, perché a Manresa mi sono rotto il il ginocchio e sono stato fermo sei-sette mesi. Da lì sono tornato in Nazionale in estate, poi è arrivata l’offerta di Trento, che era una società molto solida e ben strutturata e pensavo fosse la cosa più giusta per rimettermi informa andare in un posto in cui si lavora molto bene come Trento, e infatti lo è stata. Abbiamo fatto un bell’anno, con la semifinale di EuroCup, abbiamo fatto molto bene e poi sono andato a Torino dove ho vissuto un’altra bellissima esperienza di tre anni”.
In Nazionale tu hai spesso giocato le qualificazioni, ma hai avuto anche le grandi occasioni dell’Europeo 2013 e del Preolimpico 2016.
“Ho avuto la fortuna di fare 10 anni di Nazionale, sia con Simone Pianigiani che con Ettore Messina, 10 di fila da 21 a 31 anni. E’ la cosa più bella che esista per un giocatore, quella maglia è una sensazione unica ed è forse mancata la ciliegina sulla torta. Agli Europei siamo arrivati ai quarti di finale nel 2013 e poi anche nel 2015 e 2017, abbiamo perso la finale al Preolimpico, è insomma mancato il centesimo per fare un euro. Però sono contentissimo di tutto quello che è stato nei 10 anni in azzurro”.
Fra l’altro nel 2013 non ci fu soltanto la sconfitta con la Lituania ai quarti, perché le prime sette si qualificavano ai Mondiali. L’Italia, nel tabellone 5°-8° posto, trovò l’Ucraina che era allenata da Mike Fratello, non un signor nessuno, e poi la Serbia che era una delle grandi deluse dopo aver preso trenta punti dalla Spagna.
“Perdemmo quel quarto con la Lituania nel momento in cui eravamo forse la squadra più in forma del torneo, però la Lituania fece una partita incredibile con una squadra incredibile, che aveva i due Lavrinovic, Motiejunas, Valanciunas. Non fecero un gran torneo fino a quel momento, e infatti eravamo noi la testa di serie, poi fecero una partita da grandissima squadra contro di noi e ci buttarono fuori. Da lì fu difficile recuperare le energie fisiche e mentali per prendersi quel posto ai Mondiali, perché eravamo molto corti, giocavamo in otto, le partite erano a breve distanza, la prima poco più di 12 ore, non eravamo fisici abbastanza per competere contro Ucraina e Serbia e andammo a casa”.
Com’è nato il soprannome O Guastatore?
“In quel periodo uscivo spesso dalla panchina, quindi provavo a cambiare le partite, quindi da lì O Guastatore; è una cosa che disse di me Stefano Michelini (commentatore Rai dopo una lunga esperienza in panchina, N.d.R.). Provavo a dare un’impronta diversa alla partita rispetto a quella che era stata fino a quel momento”.
Poi però hai rischiato di essere guastato tu stesso, con quell’incidente nell’All Star Game in cui Trent Lockett ti è andato sul naso.
“Sì, quella purtroppo è capitata, avevamo preparato qualcosa di diverso, purtroppo Lockett è scivolato, ma alla fine niente di particolare. C’è di peggio! (ride)”
Si sta molto parlando di un discorso relativo alla ristrutturazione della Serie A dovuta un po’ al fatto che quest’anno, complice la situazione di Avellino, è stata a 17, e un po’ al fatto che ora si sta fermando con tutti i possibili problemi connessi. Secondo te la struttura ideale come dovrebbe essere?
“Io ho fiducia nel presidentissimo Petrucci, che saprà qual è la cosa giusta da fare. Logicamente le squadre che hanno il merito, se sono tutte in regola, è giusto che facciano il campionato, per cui non c’è una struttura giusta o sbagliata, ma c’è quella per cui semplicemente devono essere tutti in regola. In quel momento è tutto più facile. I campionati a 17 sono comunque cose che non si possono prevedere, sono particolari, e lì bisogna semplicemente prenderne atto e dare il meglio con quello che hai”.
Si sente nelle tue parole che Torino, assieme al passato a Teramo e in ACB, è stata l’esperienza più significativa, col picco della Coppa Italia.
“Diciamo che ci son stati tre capitoli diversi della mia vita. Il primo è stato a Teramo dove sono stato lanciato, il secondo Bologna con gli anni della Nazionale dove mi sono consacrato, e il terzo sicuramente Torino dove ho vinto qualcosa, sono stato lì tre anni e capitano di un progetto molto importante con uno sponsor molto importante come quello della FIAT, che purtroppo per una gestione scellerata della presidenza è finita male. Però i tre capitoli più importanti sono stati quelli. E’ vero che la squadra più forte in cui ho giocato è stata il Baskonia, ma alla fine ci sono rimasto 10 mesi, non è paragonabile alle altre tre”.
Fra l’altro a Torino avevano anche intenzione di puntare in alto, come lasciava intuire il fatto di trasferirsi dal PalaRuffini al PalaVela.
“Il progetto era molto interessante ed è quello che mi ha spinto a firmare lì, ed è quello che mi ha legato veramente con la città, era veramente qualcosa di bello dove si poteva e si doveva far meglio ma non è stato fatto”.
Ci sono dei giocatori con cui hai legato di più nella tua carriera?
“Ce ne sono tanti, tantissimi, fare dei nomi su vent’anni di carriera è molto difficile. Almeno a due per ogni anno mi sono legato molto, ho fatto il testimone di nozze a più giocatori, si creano delle piccole famiglie quando stai 3-4 anni in un posto, quando li vedi tutti i giorni per tante ore, quindi fare dei nomi singoli non ha senso, sarebbero troppi da elencare”.
E in fondo questo può anche essere il senso stesso della pallacanestro, che diventa non soltanto uno sport, ma anche una famiglia allargata.
“Diciamo che questo dipende, in realtà, da quanto rimani in una squadra, perché se ci sei per tanti anni con gli stessi giocatori, a quel punto sì, può anche essere così”.
Alla luce del fatto che negli ultimi anni (ma, in realtà, già quando hai iniziato tu nel professionismo) si tende a cambiare spesso un gran numero di elementi ogni estate, quanto è a volte complicato dover a volte evoluire con giocatori ogni volta diversi?
“Purtroppo questo è il mercato, perché prendi tanti giocatori stranieri, non sai come si ambientano nel campionato, come reagiscono e di conseguenza non puoi far pluriennali, e alla fine dell’anno spesso devi ripartire. Però è anche il bello del nostro sport, perché multirazziale come il nostro non esiste, ti forma molto mentalmente, ti apre tanti modi diversi di pensare, se pensi che spesso in squadre di 10 ci sono giocatori di 3-4-5 paesi diversi è molto bello”.
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Credit: Ciamillo