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Rugby femminile: Michela Sillari “L’Italia cresce, ma ci manca ancora visibilità e siamo dilettanti”

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La trequarti del Valsugana e punto fermo dell’Italdonne Michela Sillari racconta in un’intervista esclusiva a OA Sport come sta vivendo questo periodo di stop dello sport a causa del Coronavirus. Che parla dello stato del rugby femminile in Italia, dei limiti di uno sport non professionistico e della sua esperienza in Inghilterra.

Michela, prima domanda. Come stai e com’è la tua giornata tipo in questo difficile periodo?

“Fortunatamente faccio l’Università, studio ingegneria civile, quindi tra esami e lezioni sono abbastanza occupata. Con il fatto che tranne che per la spesa non esco spesso non ho così tanta paura in questo momento, sicuramente lavorassi – magari in un supermercato – sarei molto più preoccupata del contagio. Confesso, però, che le mie amiche e i miei amici mi prendono in giro per la mia ‘passione’ per l’amuchina, la uso ogni cinque secondi”.

Da atleta come stai vivendo questo momento proprio da un punto di vista di preparazione fisica e allenamento? Come ci si allena senza avere un obiettivo davanti a sé?

“Da quest’anno mi sono trasferita a Padova per giocare nel Valsugana e ho la fortuna di vivere con un’altra compagna di squadra, Giordana Duca, e così ci possiamo allenare in due, cosa sicuramente meno noiosa che farlo da sole. La squadra, poi, ci manda un programma di corsa e uno di esercizi a corpo libero, quindi ti senti seguita anche se non hai un obiettivo definito. Un po’ siamo spinte da quello, un po’ diciamo che aiuta anche per staccare la testa dallo studio e dalle preoccupazioni almeno per un po’ “.

In questo periodo si legge tanto sul taglio agli stipendi degli atleti, su come e quando ripartire. Ma il rugby femminile, purtroppo, è mero sport amatoriale. Senza farti i conti in tasca, come vive una rugbista in Italia questo momento anche da un punto di vista brutalmente economico?

“Per una volta il fatto che non siamo professioniste ci aiuta (ride, ndr.). Tutte noi o lavoriamo o studiamo, quindi chi come me studia ha un aiuto dalla famiglia, chi lavora magari ha la cassa integrazione o è anche più fortunata e può fare lo smart working e ha uno stipendio normale. Quindi, come dici tu, siamo dilettanti e quindi non sentiamo la crisi così come magari la sentono i nostri colleghi maschi che con il rugby ci vivono”.

Il rugby femminile è quello che negli ultimi anni in Italia sta dando maggiori soddisfazioni. Come mai – senza voler far confronti con i colleghi maschi – secondo te siete così vincenti?

“Siamo cresciute tanto in questi anni, ma non va dimenticato che abbiamo avuto anche noi momenti di crisi, di alti e di bassi, in passato. Non sempre è stato tutto positivo, basti pensare all’anno del Mondiale (2017, ndr.), quando abbiamo perso tutte le partite del Sei Nazioni. Piano piano, anno dopo anno, siamo riuscite ad aumentare la partite alla nostra portata. Quando ho iniziato io sapevamo che la partita ‘facile da vincere’ era quella con la Scozia, poi abbiamo iniziato a battere regolarmente il Galles, poi l’Irlanda, ora ce la giochiamo anche con la Francia ogni tanto in casa. Il fatto che Andrea (Di Giandomenico, il ct, ndr) ci conosca da anni sicuramente aiuta, il percorso che ha fatto è stato graduale, anno dopo anno ha cercato di aggiungere qualcosa a quello fatto in passato per crescere”.

Cosa servirebbe in Italia per far fare ancora più un salto di qualità al rugby (ma anche allo sport in generale) femminile?

“Piano piano, anche grazie alle vittorie, stiamo riuscendo ad avere più visibilità, anche se è un processo molto lento. Sarebbe bello raggiungere gli standard proposti da un’Inghilterra o Francia, non solo in campo, ma anche mediaticamente”.

Negli ultimi anni il campionato italiano femminile ha cambiato più volte format. Come lo giudichi? Cosa potrebbe migliorare?

“Quest’anno hanno cambiato la composizione dei gironi, creandone uno ‘elite’, ma è difficile dare un parere sul nuovo format visto che non siamo riuscite a portarlo a termine. Credo che comunque ci sia ancora un divario netto tra le prime 3/4 del girone 1 e le altre squadre dello stesso raggruppamento. Credo che comunque il nuovo format sia giusto, perché partecipare ai gironi inferiori permette alle squadre magari appena nate a giocare a un livello più equilibrato, anche perché perdere 70-0 ogni partita non fa bene a nessuno e non serve”.

Tu hai vissuto per un anno l’esperienza del campionato inglese. Cosa ti ha lasciato quella stagione a Londra che ti ha visto anche laurearti campionessa d’Inghilterra con due mete in finale? Come hai vissuto il rugby professionistico?

“Professionistico è un parolone, dopo la laurea triennale mi sono presa un anno per fare un’esperienza sportiva e di vita. Io continuavo a lavorare per pagarmi vitto e alloggio a Londra. Professionale di sicuro. I numeri erano decisamente diversi, con tante atlete a ogni allenamento. Il venerdì, per esempio, si faceva il team run con due squadre complete ad affrontarsi, qui in Italia ci sono realtà che arrivano al massimo ad avere 20 ragazze ad allenarsi e questo sicuramente non aiuta. Noi a Valsugana siamo fortunate che siamo un gruppo ampio, ma non da per tutto è così”.

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duccio.fumero@oasport.it

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Foto: Mirko Zanconato – LPS

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