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Mariella Santucci, basket femminile: “I quattro anni di NCAA grande esperienza, triste aver chiuso con lo stop. La Nazionale è sempre un’emozione”

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Quando si guarda al gruppo di giocatrici italiane andate a giocare negli Stati Uniti, un occhio di riguardo va a Mariella Santucci, che ha passato gli ultimi quattro anni alla University of Toledo. In ognuna delle sue stagioni è sempre riuscita ad aggiungere qualcosa, salendo con costanza nel proprio rendimento, fino a diventare una delle giocatrici di copertina della squadra. La pandemia di coronavirus ha interrotto la stagione di Toledo proprio mentre sembrava possibile il nuovo miracolo del ritorno alla March Madness, con tanto di eliminazione della miglior squadra della conference come ultimo canto (anche se ancora non si sapeva). L’abbiamo raggiunta nella sua Bologna, dove è rientrata, per un’intervista telefonica, in cui ha svelato molti aspetti del mondo del basket universitario americano, dal quale si stanno facendo strada numerosissimi talenti di alto livello.

Come hai vissuto la sospensione e, data la valenza storica dello stop dei vari campionati NCAA, com’è stata presa in generale?

“Per la squadra è stato abbastanza triste perché avevamo appena vinto i quarti di finale contro la prima in classifica (Central Michigan, che guidava tutta la Mid-American Conference, nota come MAC, N.d.R.), eliminandola dal torneo. Stavamo per giocare la semifinale, e ci hanno interrotto proprio il giorno prima, dicendo di tornare a casa. Non si può più neanche entrare nelle università. Sono stata un po’ colta di sorpresa, perché sapevamo che la situazione non era facile, ma non pensavamo che da un momento all’altro interrompessero tutto. Poi tutte le mie compagne sono tornate a casa, perché erano quasi tutte americane, e io sono rimasta sola perché non riuscivo a trovare gli aerei per tornare in Italia perché avevano sospeso un sacco di voli. È molto triste soprattutto per le senior, tra cui me, della mia squadra, perché finire i quattro anni così, senza concluderli veramente, a livello sportivo, non ti da soddisfazione, perché era l’ultimo anno e avrei voluto fare il più possibile, considerando che eravamo ancora in gioco. Però alla fine, parlandone anche tra di noi, ci siamo dette che alla fine il basket è importante, ma qui si parla di una cosa ancora più importante, di qualcosa che è a livello globale. Tutti stanno soffrendo per questa pandemia, e il basket è una parte ‘minore’, nel senso che il confronto con le vite umane non comincia neanche. Sono triste, però la decisione è anche giusta per proteggere noi stesse e gli altri”.

Parlando di senior, è girata l’idea di poter dare un anno extra di eleggibilità a coloro che non hanno potuto giocare la March Madness, nel caso del basket.

“Ne avevano parlato, però da quello che so io, per ora, sono arrivati alla conclusione che solo gli sport primaverili ed estivi di questo 2020 avrebbero ottenuto un anno in più. Quelli che, come noi, erano alla fine, non l’avrebbero avuto, perché noi la stagione l’avevamo quasi finita. Io non la consideravo tale, perché la March Madness è tale solo quando la inizi, però per loro contava più l’anno nel suo complesso. E poi ci siamo appena laureate, quindi ci sarebbero problemi con le nuove ‘freshman’ (nella terminologia universitaria “matricole”, gli studenti del primo anno, N.d.R.), e con la loro entrata se danno un altro anno alle senior le “scholarship” (annate accademiche, N.d.R.) aumenterebbero di numero, però non so come si svilupperà. Anche i soldi dell’università sono tanti da pagare, tra costi e scholarship, quindi secondo me non penso sarà possibile. Per ora gli sport estivi del 2020 sono gli unici che hanno avuto questa chance”.

Quale bilancio della stagione, e più in generale dei tuoi quattro anni, fai?

“Quella di quest’anno era una squadra molto giovane, che era un po’ cambiata nel modo di giocare. Durante la stagione le cose andavano così così, poi, verso la fine, ci siamo trovate. Dopo un po’ di tempo in cui giocavamo insieme, e tutta la squadra aveva molto talento, eravamo arrivate a ottenere risultati come eliminare la prima in classifica, che aveva perso pochissime partite in campionato, per accedere al torneo nazionale NCAA. Eravamo sulla buona strada, è stato un anno in cui mi sono divertita molto e mi sono trovata bene con le compagne di squadra. Eravamo tutte in sintonia e ci divertivamo dentro e fuori dal campo. Per quanto riguarda i quattro anni, il bilancio è positivo perché ho fatto una grande esperienza, che se fossi rimasta in Italia non avrei avuto la possibilità di fare, perché non avrei imparato la lingua, non avrei conosciuto persone americane, finlandesi, di qualsiasi posto. Ho anche preso la laurea, e quindi un’esperienza a livello sia cestistico che personale che rifarei mille altre volte. Sono contenta di essere partita per andare fuori a vivere in un altro continente, parlare una lingua diversa”.

Quale Mariella è entrata a Toledo e quale è uscita a livello sia personale che cestistico?

“A livello cestistico ero entrata con qualche chilo in meno e uscita con qualche chilo in più, quindi positivo perché quello era un aspetto da migliorare. A parte scherzi, questa è anche una domanda difficile! Direi che sono entrata avendo giocato in A2 a Bologna, rimanendo a casa, quindi di esserne uscita più matura sia a livello cestistico che personale, come esperienze di vita. Nel basket ho avuto esperienze con un livello fisico secondo me molto elevato, perché qui in Italia il livello delle giovanili non è mai stato così. Mi sono confrontata con giocatrici forti (vedi Notre Dame), che poi sono andate in WNBA, quindi direi che ho fatto una grande esperienza anche sul campo”.

Esperienza nella quale ti sei migliorata anno dopo anno, passo dopo passo, fino anche al picco della notte dei 31 punti.

“L’ultimo anno è stato il migliore, insieme al primo. All’inizio ero una nuova giocatrice. Loro, che lavorano molto sullo scouting della squadra avversaria, non mi conoscevano, e quindi potevo essere me stessa senza cambiare quasi niente. Dal secondo e terzo anno, quando le difese si erano adattate a me e alle mie caratteristiche, ne ho dovute sviluppare di altre sulle quali in Italia non avevo mai lavorato. Nell’ultimo anno queste sono fruttate, perché comunque avevo già esperienza, sapevo cosa bisognava fare per vincere la conference perché l’avevo già vinta nel primo anno, sapevo su cosa dovevo lavorare e i motivi per cui mi marcavano, quindi lavoravo su quel che le avversarie non conoscevano. L’ultimo anno è stato il migliore, anche perché giocavo come playmaker titolare, partivo in quel ruolo, ma magari giocavo anche da guardia. Negli anni precedenti giocavo sempre da 2, con qualche minuto da 1. Diciamo che la squadra la gestivo un po’ io, mi son trovata molto bene e, conoscendo il gioco dell’allenatrice, è stato anche più facile adattarsi”.

Quali sono quelli che consideri i punti più alti del tuo cammino universitario a livello sportivo?

“Sicuramente il raggiungimento della March Madness del 2017. È stata un’esperienza a livello più alto e intensa. Avevamo vinto la conference dopo 17 anni che la mia università non lo vinceva. Lo abbiamo vinto nell’arena Q (l’ex Quicken Loans Arena di Cleveland, prima ancora Gund Arena e oggi Rocket Mortgage FieldHouse, impianto dei Cleveland Cavaliers in NBA, N.d.R.), anche quella da brividi. Subito dopo abbiamo fatto come si fa sempre in questi casi, quando le squadre americane guardano il tabellone, quando esce il loro nome con scritto quando giocheranno e contro chi. Da lì siamo partite con l’aereo privato nell’Oregon a giocare contro Creighton. Eravamo in piena March Madness, quindi c’era un’altra partita prima della nostra, e sempre a eliminazione diretta. La tensione era a livelli molto alti, ma noi avevamo raggiunto l’obiettivo che ci eravamo prefissate, vincere la MAC. Siamo arrivate magari anche un po’ più “rilassate”, e nessuna di noi aveva mai giocato lì, quindi nessuna sapeva com’era la March Madness, il torneo NCAA, eccetera”.

Ricollegandosi alle conference, va detto che la questione della sospensione è stata un po’ particolare: prima hanno cominciato a fermarsi tutti i tornei di accesso alla March Madness, e poi la NCAA ha diramato il comunicato di cancellazione completa.

“Anche quello è stato abbastanza strano. Da noi era scoppiato il caso perché Rudy Gobert era stato trovato positivo, e lui aveva giocato alla Q qualche settimana prima, in un periodo in cui ci abbiamo giocato anche noi. Il giorno dopo i nostri quarti si è sparsa la notizia e quindi il MAC, che era uno dei primi che aveva interrotto più, da lì vedevamo ogni ora un’altra conference che chiudeva, fino alla NCAA”.

Tu come hai cominciato con la pallacanestro?

“Io ho cominciato quando avevo 4 anni, perché le mie sorelle giocavano a basket, quindi andavo a vedere i loro allenamenti, mi sono appassionata e ho iniziato a giocare da piccolissima”.

Poi, prima di andare in America, hai giocato alla Magika Castel San Pietro e alla Libertas Bologna.

“Prima alla Libertas, poi a Castel San Pietro. Gli anni di A2 sono stati tutti della Magika, eravamo partite dalla B, poi abbiamo vinto l’A3 (che per un brevissimo periodo fu la terza serie nazionale; ad oggi il terzo livello è la B, ma su base regionale, N.d.R.), e in A2 abbiamo fatto due finali per andare in A1″.

Perché hai deciso di andare negli USA? Avevi già avuto qualche contatto?

“All’inizio, dopo l’ultimo anno in cui ho giocato qui, mi avevano contattato sia Toledo che altri atenei. Il problema era che io non conoscevo l’inglese per niente, quindi loro mi scrivevano in lingua e io non capivo. A quel punto un’allenatrice di Toledo, che ha giocato molti anni in Italia, mi ha contattato in italiano scrivendo ‘guarda, sono interessata’ È venuta in Italia a farmi visita, e quindi mi ha spiegato esattamente com’era il college perché non seguivo molto la NCAA e il basket americano, ero più concentrata su quello italiano. Da lì mi ha detto ‘noi ti offriamo questo, tu avresti anche il modo per laurearti’ e a me interessava molto continuare a giocare, ma anche unirlo a una laurea. A me piace molto pensare che comunque, dopo il basket, vai a fare qualcosa che ti piaccia e che non sia collegata solo alla pallacanestro. Avere un piano B: se qualcosa non va bene, avere un piano di riserva. Ho sempre voluto prendere una laurea, e ora voglio prendere una magistrale che mi interessi, quindi sì, basket, ma volevo aggiungere altro. Se fossi rimasta in Italia e avessi giocato in A1 sarebbe stato più difficile, magari ci avrei messo qualche anno in più. Mi è però piaciuta molto quest’idea di andare fuori casa, imparare l’inglese e fare basket e scuola allo stesso tempo”.

Dopo quanto tempo hai iniziato a comunicare decentemente negli States?

“Io sono andata là ad agosto, e a dicembre mi facevo capire e capivo. Ci ho messo quattro-cinque mesi. Alla fine del primo anno ero a posto, parlavo benissimo (spero!), capivo tutto”.

Avevi il tuo slang, un po’ come quando Kobe Bryant tornò negli States dopo aver vissuto anni in Italia.

“Sì, esatto!” (ride)

Hai già tracciato, per sommi capi, un primo confronto tra la mentalità italiana e quella americana in tema di rapporto sport-studio. Da noi c’è una nota difficoltà a conciliare le due cose, negli States è tutto invece strettamente coniugato.

Sì, diciamo che lì loro hanno questo modo diverso di vedere l’università. Loro contano molto sullo sport, e fanno in modo che tu possa prendere sia il diploma che la direzione del miglioramento sportivo. È molto diverso, perché sport e scuola lavorano insieme. Ad esempio, se un giorno mancavo a lezione e andavo a giocare o all’allenamento, loro mi giustificavano, perché andavo a giocare per l’università. Non mancavo perché non andavo a seguire. In Italia è diverso, perché non c’è questo collegamento scuola o università-basket, quindi se fai un’assenza non te la giustificano per quel motivo, invece lì sempre”.

In più di solito le partite sono eventi che tutti vengono a vedere, il che poi ha fatto la storia del basket universitario con gli ambienti caldissimi.

“È vero. Lì era proprio una cosa che non ho mai visto per il basket femminile. Eravamo quattromila abbonati più gli studenti. In Italia una cosa del genere non l’ho mai vissuta. C’era una palestra, dentro ce n’era una più piccola dove facevamo tiro, c’era installato l’impianto per la musica che si sentiva a tutto volume, cose che in Italia non sono mai successe. Penso che sia anche perché loro prendono i soldi degli studenti, e non solo degli atleti, e hanno un sacco di persone che si laureano che danno soldi indietro alla squadra o all’università perché loro si sono laureati lì, trovano lavoro e rimangono molto affezionati ai loro atenei”.

Sono sempre di più le giocatrici italiane che stanno andando oltreoceano o stanno comunque considerando l’idea di farlo.

“Prima di me e della mia annata ce n’erano alcune, ma non tantissimi gruppi. Secondo me succede perché è un’esperienza che non puoi fare se tu pagassi, non riusciresti molte volte, perché costano tantissimo le università. In più impari l’inglese, studi, giochi, è un’esperienza di vita che stando qui in Italia non riusciresti a fare. Quindi è un’esperienza di vita che va fatta, soprattutto quando siamo così giovani. Sono quattro anni, non è che non si torna più, poi sei ancora giovane. Ti cambia molto. Vai lì, sei da solo, devi crescere come persona e anche come atleta se vuoi avere dei risultati”.

In tutto questo però la Nazionale non s’è dimenticata di te.

“Mi hanno continuata a chiamare e sono stata felicissima. Quest’anno non so cosa succederà, hanno già rimandato un sacco di manifestazioni. Però sono sempre contenta quando mi chiamano. È un’emozione”.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

“Io negli States ho finito, sono in Italia e sto cercando squadra, dovunque ci sarà offerta, anche se è un momento un po’ difficile”.

E in più s’è mossa soltanto Schio finora.

“Esatto, adesso è tutto abbastanza impegnativo. Però non ho molta fretta, sono abbastanza fiduciosa e aspetto che arrivi l’offerta giusta, poi vedrò”.

Prima di andare negli USA, ma anche durante il primo anno a Toledo, hai vissuto l’esperienza delle Nazionali under.

“Ho fatto tutte le giovanili, poi nell’ultimo anno ho fatto anche il raduno con la Sperimentale e con la Nazionale senior. Gli Europei sono sempre stati emozionanti. Spero in una convocazione con la maggiore il più presto possibile”.

Per adesso i ricordi più belli in Nazionale?

“Sicuramente gli Europei Under 16 in cui abbiamo vinto contro la Russia davanti a un pubblico numerosissimo che le tifava, in Bulgaria. Erano i quarti di finale, e loro avevano Raisa Musina e Maria Vadeeva(oggi entrambe a Ekaterinburg, l’una scelta dalle Phoenix Mercury, l’altra già elemento importante delle Los Angeles Sparks, N.d.R.), e abbiamo vinto una partita che nessuno si aspettava potessimo vincere. Di lì abbiamo potuto giocare i Mondiali Under 17 dell’anno successivo. E per questo è l’esperienza più bella che io ricordi”.

Hai chiuso con gli Europei di Matosinhos, a livello Under 20, in cui c’era chi diceva che l’Italia avesse un po’ meno talento dell’anno precedente. Premesso che nel 2016 c’era una certa Cecilia Zandalasini, nel 2017 oltre a te c’erano giocatrici quasi tutte diventate di A1.

“Quell’anno lì fu molto bello. Come gruppo siamo cresciute molto insieme, è cambiato qualcosa, ma non tanto rispetto all’inizio. Ci trovavamo bene, e ogni volta che ci riunivamo si sentiva che era un gran bel gruppo. Speravamo in un risultato migliore, però ci abbiamo provato!”

Hai avuto anche qualche convocazione a livello di 3×3, quello sport così simile e diverso rispetto al basket normale.”

L’anno scorso sono andata a Lanzhou, in Cina, per i Mondiali Under 23, con Olbis Andrè, Valeria Trucco ed Elisa Policari. È stata un’esperienza bellissima, mi sono trovata molto bene. Il 3×3 è molto difficile, perché devi essere super allenato a giocare in quella maniera lì. Io venivo dal basket normale, avevo fatto poca esperienza, quindi mi ero trovata in difficoltà a livello di fiato: devi sempre correre, non ti fermi mai, i time out sono di 30 secondi, hai solo un cambio. Secondo me se avessimo potuto allenarci prima o fare qualche allenamento in più avremmo potuto avere un risultato migliore. Abbiamo iniziato perdendo di uno allo scadere con il Giappone che poi ha vinto l’oro, poi abbiamo perso di due, in maniera uguale, contro l’Ucraina, e nell’ultima contro la Francia che poi è arrivata terza. Il girone non era facilissimo, però ce la siamo sempre giocata e siamo migliorate partita dopo partita”.

Tutto al doppio della velocità, in fin dei conti.

“Sì, e poi ci sono dei concetti diversi: se vieni battuto, è meglio che tu esca dall’arco e aspetti che anche la palla ne esca invece di inseguire e andare a rimbalzo, perché ci sono regole completamente diverse e ti devi adattare. Devi conoscerle, devi allenartici e poi ti vengono un po’ più naturali”.

Infatti anche Sabrina Ionescu, prima scelta all’ultimo draft WNBA, nel 2018 il 3×3 lo giocò e non rese benissimo. Poi ai quarti quegli Stati Uniti furono fermate da quattro persone specifiche…

“Proprio perché è una questione di allenamento, è una concezione diversa delle regole”.

Negli Stati Uniti quali sono state le giocatrici più forti che hai affrontato?

“Di sicuro a Notre Dame, nell’anno in cui hanno vinto il titolo (2018, N.d.R.), Arike Ogunbowale, è impressionante per la facilità con cui fa canestro, controlla il suo corpo. Di tutte è la migliore. Poi ho giocato contro Jordin Canada di UCLA, anche lei play, adesso è a Seattle. Molto molto forte. Come play ho imparato molto giocando contro di lei, che come me è piccolina. Non dico che giochiamo in modo simile, ma comunque abbiamo dei tratti comuni. Queste due mi hanno fatto tanta impressione”.

Dalle università di quest’anno fra l’altro è uscito parecchio talento: a parte Sabrina Ionescu, per esempio, c’è Satou Sabally anche lei di Oregon State, che è molto forte, e forse la sorella Nyara lo sarebbe ancora di più, se non si fosse infortunata due volte in due anni, perdendoli.

“Secondo me ora che rientra dall’infortunio, anche se è un po’ pesante, dominerà ancora. È fortissima”.

Poi Chennedy Carter, Ruthy Hebard…

“Un sacco, davvero. Purtroppo io non ho giocato contro quasi nessuna delle prime 15 scelte di quest’anno, però le guardavo sempre, nel senso che le mandavano sempre su ESPN ed erano abbastanza impressionanti. Secondo me faranno molto bene il prossimo anno”.

Tu hai citato anche il fatto che ci sia stato uno spartiacque tra il periodo in cui c’erano poche italiane e quello in cui ne sono arrivate molte. Uno spartiacque rappresentato da te, Lorela Cubaj, Francesca Pan, Elisa Penna.

“Prima non ero mai stata informata sulla NCAA, perché non pensavo mi avrebbero mai offerto niente, quindi non conoscevo bene. Che io sappia questi ultimi anni sono stati decisivi per il cambiamento, anche perché con la conoscenza dei social media ora le ragazze conoscono di più il basket americano, possono guardare gli highlights, il livello che c’è lì. Prima, in assenza di social media, in America e in generale c’era meno conoscenza di NCAA femminile, di cosa ci si poteva aspettare”.

Anche se poi del lavoro ancora c’è da fare. Esempio banale: cercandone di tuoi, di highlights, se ne contano pochissimi.

“Quello sì. Secondo me il gap tra basket maschile e femminile c’è sempre stato. Ora sta diminuendo perché ci lavoriamo tanto. Ammetto che di highlights miei nemmeno io ne ho mai trovati!” (ride)

C’è anche gente del basket maschile che sta iniziando a mostrare sempre più rispetto nei confronti del femminile. Due esempi banalissimi: Carmelo Anthony che, alle Olimpiadi, le donne andava spesso a vederle, e Kobe Bryant, che faceva tantissimo indipendentemente dalla figlia Gianna.

“Sono d’accordo. Anche da noi, all’università, avevamo tanti giocatori degli sport maschili che venivano a supportarci sempre. Oggi sono molto felice di sentire che giocatori NBA e di tutto il mondo maschile si interessino e supportino il basket femminile“.

Se dovessero venire a parlare con te a proposito della possibilità di fare un’esperienza in America, tu cosa diresti?

“Io direi di sì, sicuramente. È ovvio che ognuno ha bisogno di stimoli diversi. Io lo stimolo di andare, prendere, partire, andare in un altro continente, con un altro modo di vivere, di giocare, l’ho accettato subito perché sono una persona a cui piacciono molto i confronti, sono molto competitiva. Avere davanti a me un ‘challenge’ importante mi da ancora più voglia di affrontarlo e di vincere. Io direi di sì a qualsiasi persona per la mia esperienza, poi ce ne sono di diverse, università differenti e posti ancora diversi in cui andare. Pero sì”.

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federico.rossini@oasport.it

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Foto: University of Toledo

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