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Calcio
Calcio, 35 anni fa la tragedia dell’Heysel: una lezione da non dimenticare
Il concetto è chiaro: non dimenticare. Ieri è stata una giornata importante per il calcio italiano, la decisione del Governo è arrivata e il 20 giugno si ripartirà, con il 13 che vedrà andare in scena la Coppa Italia. Le tensioni non mancano per via di un calendario molto fitto e soprattutto le grandi della Serie A hanno manifestato più o meno apertamente il proprio malcontento.
In un sistema che presenta problematiche diverse, la ricorrenza dei 35 anni della strage dell’Heysel e di ciò che quel maledetto 29 maggio 1985 ha rappresentato non deve essere dimenticata. Al contrario, il ricordo che poco prima dell’inizio della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool allo stadio Heysel di Bruxelles, morirono 39 persone, di cui 32 italiane, e ne rimasero ferite oltre 600, deve essere riportato alla mente per trarne giovamento e comprendere i mali del nostro presente. Una tragedia che, come molti hanno scritto, si poteva evitare. Le autorità belghe sottovalutarono la portata di tifosi che accorse nella struttura, peraltro fatiscente e poco consona ad ospitare un evento di tal portata.
Come si svolsero i fatti? Ai molti tifosi italiani, buona parte dei quali proveniva da club organizzati, fu assegnata la tribuna delle curve M-N-O, che si trovava nella zona opposta a quella riservata ai tifosi inglesi. Molti altri tifosi organizzatisi autonomamente, anche nell’acquisto dei biglietti, si trovavano invece nella tribuna Z, separata da due basse reti metalliche, assolutamente inadeguata, dalla curva dei tifosi del Liverpool, ai quali si unirono anche tifosi del Chelsea, noti per la loro violenza (chiamati headhunters, “cacciatori di teste”). Circa un’ora prima della partita (ore 19.20; l’inizio della partita era previsto alle 20.15) i tifosi inglesi più accesi, i cosiddetti hooligans, cominciarono a spingersi verso il settore Z a ondate, cercando il take an end (“prendi la curva”) e sfondando le reti divisorie: memori degli incidenti della finale di Roma di un anno prima, si aspettavano forse una reazione altrettanto violenta da parte dei tifosi juventini, reazione che non sarebbe mai potuta esserci, dato che la tifoseria organizzata bianconera era situata nella curva opposta (settori M-N-O).
Gli inglesi sostennero di aver caricato più volte a scopo intimidatorio, ma i semplici spettatori, juventini e non, impauriti, anche per il mancato intervento e per l’assoluta impreparazione delle forze dell’ordine belghe, che ingenuamente ostacolavano la fuga degli italiani verso il campo manganellandoli, furono costretti ad arretrare, ammassandosi contro il muro opposto al settore della curva occupato dai sostenitori del Liverpool. Nella grande ressa che venne a crearsi, alcuni si lanciarono nel vuoto per evitare di rimanere schiacciati, altri cercarono di scavalcare gli ostacoli e di entrare nel settore adiacente, riportando ferite. Il muro a un certo punto crollò per il troppo peso, moltissime persone rimasero schiacciate, calpestate dalla folla e uccise nella corsa verso una via d’uscita, per molti rappresentata da un varco aperto verso il campo da gioco. I sopravvissuti all’accaduto si recarono dai giornalisti presenti per la cronaca della partita, per voler rassicurare le proprie famiglie. Una situazione surreale nella quale anche il grande Bruno Pizzul, cronista di tante partite della Nazionale, si trovò.
Perché è importante ricordare ciò? E’ fondamentale perché quanto accaduto a Bruxelles quel giorno fu il risultato di un’estremizzazione negativa della concezione non sportiva del calcio i cui residuati, sfortunatamente, sono presenti anche a distanza di tanto tempo. Spesso ci capita di ascoltare cori del tipo: “10, 100, 1000 Heysel“, a cui in tutta risposta si intona: “10, 100, 1000 Superga“. Un gioco becero allo sfottò quando il rispetto per chi non è più in vita è assente. Il “Pallone” dovrebbe imparare dai suoi errori o quantomeno cercare di migliorare, ma spesso atteggiamenti facinorosi vengono accettati per via di un bieco discorso di marketing. Quel che si nota, pertanto, è la mancanza del sorriso e del piacere di guardarsi una partita sia da parte dello spettatore e sia degli stessi attori principali, i giocatori, che fin dai “pulcini” ricevono troppa pressione psicologica per le eccessive aspettative dei rispettivi genitori. La lezione dell’Heysel, dunque, non deve essere dimenticata.
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giandomenico.tiseo@oasport.it
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Foto: LaPresse