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Basket: nell’Italia che va alle Olimpiadi di Tokyo ci sono un pezzo di futuro e tante storie
L’Italia che ha riportato il basket maschile alle Olimpiadi per la prima volta da Atene 2004 è figlia di tante storie. Simili o diverse, ma comunque storie, che si sono unite per una settimana a Belgrado che ha regalato ciò che a Torino non era riuscito. Quasi un percorso da segno del destino: il Palasport Olimpico vide gli azzurri non riuscire a concretizzare il sogno da padroni di casa, mentre il Pionir li ha visti essere autori di un sacco sportivo ad altri padroni di casa, quelli serbi.
E dentro questa squadra azzurra c’è la storia giovane di Nico Mannion, vent’anni. Nato a Siena, padre Pace ex stella di Cantù, madre Gaia ex pallavolista, formazione cestistica negli States. Dal sogno delle prime dieci scelte al draft NBA del 2020 alla discesa netta, alla metà del secondo giro con i Golden State Warriors. Quasi un colpo di fortuna, perché imparare a difendere (quello che gli si è imputato di più come difetto) con Steph Curry come compagno non è proprio la peggiore delle situazioni. Ha migliorato, ha fatto vedere questa parte del suo gioco anche a Belgrado, ma soprattutto ha mostrato controllo del corpo, freddezza enorme e nervi saldissimi ogni volta che si trattava di prendere delle decisioni. Pensare che abbia vent’anni e saperlo con una maturità cestistica già di primo livello è qualcosa che porta a un’unica conclusione: almeno per la prossima dozzina d’anni il ruolo di play titolare (o, come variante tattica, in uscita dalla panchina), per l’Italia, è assicurato.
Ma ci sono anche le storie degli italiani che in Serie A hanno fatto fatica a emergere, e in questo senso è lampante l’esempio di Simone Fontecchio. A Milano non riusciva a trovare particolare spazio, è stato girato a Cremona, poi è tornato all’Olimpia, è andato a Reggio Emilia. Proprio qui è riuscito a mostrare davvero, in via iniziale, le qualità che l’hanno poi portato a essere scelto dall’Alba Berlino. Si è messo in gioco e ha vinto una prima volta, entrando in rotazione. Poi una seconda, diventando elemento fondamentale. Poi una terza, facendo da trascinatore verso il titolo tedesco. Poi una quarta, tornando in Nazionale e diventando uomo decisivo.
E poi c’è Achille Polonara, una persona che ha sempre avuto il senso del saper scegliere al momento giusto. In Nazionale, in passato, era stato spesso ignorato e alle volte si faceva fatica a comprenderne il perché, vista la sua sempre valida interpretazione del ruolo di 4. In molti erano rimasti di stucco per il suo passaggio da Sassari al Baskonia, ma ha avuto ragione lui: un anno dietro a Shengelia, un anno da protagonista. Aver vinto da attore principale la Liga ACB è stato per lui importante, perché gli ha permesso di affrontare Belgrado con lo spirito di chi sapeva di potercela fare.
Da non dimenticare neppure Stefano Tonut: è nel pieno della sua carriera, a 28 anni è diventato MVP del campionato italiano. E sta entrando nella storia del basket azzurro, in un’epoca però ben diversa, proprio com’è riuscito a fare il padre Alberto, uno degli uomini di Nantes ’83. Sembrava in difficoltà con Porto Rico, ha ripreso la via con la Repubblica Dominicana e con la Serbia ha messo insieme tiri importanti, dando sempre prova di grande presenza. E’ oramai l’oggetto del principale caso di mercato del basket italiano, ma che si sia ormai di fronte a materiale da Eurolega non è in dubbio. Il livello è quello.
E c’è naturalmente Nicolò Melli. Che giovane non è, ma ha fatto da guida. Anzi, da capitano (in pectore, nella sua mente, perché sente di avere la fascia “in prestito” fino al ritorno dai guai fisici di Datome). E, da capitano, ha insegnato una cosa importante: non è un problema se la palla non entra, se quel canestro la sputa fuori sempre. C’è sempre qualcos’altro da fare in campo. E Melli, in questo torneo, è stato anche l’uomo delle piccole cose.
C’è da tornare però alla linea giovane, e allora è impossibile non citare Alessandro Pajola. Per uno cresciuto con accanto Teodosic e Markovic è diventato sempre più piccolo il problema della pressione. Anzi, per lui non esiste: basta difendere, e farlo con forza, e sapersi prendere le responsabilità. L’aveva già fatto più volte alla Virtus Bologna, l’ha messo in pratica anche in Nazionale. Ed è lui l’altra ragione per cui, almeno per i prossimi 12 anni, il ruolo di play ha le spalle ben coperte.
Ma sarebbe ingiusto dimenticare tutte le storie degli altri: di Marco Spissu, che non ha reso come voleva a causa dell’infortunio con la Germania, ma che è l’esempio anche della caparbietà di chi (Gianmarco Pozzecco) ha creduto in lui, di Awudu Abass, che ha giocato meno di tutti, ma è stato storia di riscatto in stagione per il percorso che l’ha portato in azzurro. E poi di Amedeo Tessitori, che è passato da infortuni e Covid a una maglia azzurra che significa fiducia di Sacchetti, di Giampaolo “Pippo” Ricci, che il coach azzurro stima e rispetta fin dai tempi di Cremona, oltre ad avergli dato minuti e responsabilità importanti. Ma anche di Riccardo Moraschini, l’uomo dei minuti di rilievo in semifinale, e di quel Michele Vitali che ha seguito due volte la strada estera e ha avuto ragione, rientrando nel giro azzurro con un ruolo di prim’ordine soprattutto nel difficile esordio.
E dietro a loro si muove tanto: i nomi sono quelli di Matteo Spagnolo, di Gabriele Procida, di Davide Casarin, di Sasha Grant. Sono i quattro nomi sulla bocca di tutti, se non altro per quello che hanno fatto vedere tra i professionisti nelle occasioni che sono state loro concesse finora tra Spagna, Italia e Germania. E il tutto senza dimenticare quel Paolo Banchero che in Nazionale ancora non si è potuto vedere, ma che vicino a canestro sarà importantissimo. Ed è giusto aspettarsi molte belle cose da chi è proiettato ai primissimi posti del draft NBA 2022.
Il tutto, chiaramente, senza dimenticare i tantissimi giocatori portati in azzurro da Sacchetti nelle varie situazioni che gli si sono presentate davanti, fossero esse le qualificazioni (per finta) agli Europei o i tre raduni della Nazionale verso Belgrado. Parte degli uomini che poi abbiamo visto a Belgrado si sono visti già lì, assieme a coloro che possono rappresentare una fetta di futuro italiano come Davide Alviti, che si è meritato l’interesse e l’ingaggio di Milano, Tommaso Baldasso, che mai si è tirato indietro ogni volta che si è trattato di vestire l’azzurro, e numerosi altri (importante il segnale dato con l’aver tenuto Momo Diouf fin quasi all’ultimo in gruppo: di questo classe 2001 ne sentiremo parlare).
Non sappiamo se ci saranno cambiamenti a Tokyo, e la decisione del resto spetta a Meo Sacchetti, ma una cosa è certa: arriviamo a questo punto perché da anni l’Italia si è riconfermata al vertice in Europa e non solo, nonostante le mille questioni che attanagliano la nostra pallacanestro. Che, però, di giocatori ne sa ancora produrre. E senza la strada tracciata da alcuni di questi prodotti celebri, i Bargnani, Belinelli e Datome, dai Gentile, dai Della Valle e dagli Hackett, non saremmo qui. Dal 2013 si sono raggiunti tre quarti europei, il 2019 ha visto l’Italia dimostrare di poter stare al passo con le potenze mondiali. Una pagina di storia si è scritta, la prossima dobbiamo conoscerla.
Credit: Ciamillo