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Sei Nazioni, Italrugby: voltare pagina e ripartire, tutti insieme

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Il tunnel imboccato è più lungo di quanto si possa immaginare. In fondo, l’unica luce è rappresentata da un tenue bagliore che illumina a malapena un percorso insidioso, saturo di trabocchetti e caratterizzato da innumerevoli ostacoli, pronti a sbarrare ripetutamente la strada alla Nazionale. Perché ripartire dal fondo sarà anche la naturale conseguenza di uno dei peggiori Sei Nazioni di sempre, ma la risalita potrebbe rivelarsi quanto mai complicata.

Il cielo sopra Roma, sopra l’Olimpico e sopra Italia-Inghilterra era azzurro come un anno fa, quando Italia-Irlanda chiudeva il magico Sei Nazioni 2013 con il trionfo della Banda Brunel, apparentemente destinata ad aprire un nuovo corso, una nuova era. Quell’azzurro di sabato, però, si è trasformato inesorabilmente in plumbeo per Parisse&co. di fronte allo spettacolo poco edificante andato in scena, il punto esclamativo sulla crisi in cui è piombata l’Italrugby. Al termine di un disastroso anno in cui l’unico match convincente è la sconfitta del Millennium Stadium, molti, tra tifosi ed appassionati, sono tornati a parlare di un’Italia indegna di partecipare al Sei Nazioni e, di riflesso, di una Nazionale che farebbe meglio ad eclissarsi dal torneo più antico del mondo per giocare nuovamente con Georgia, Romania e similari. Commenti solo in parte dettati dall’amarezza del momento, che testimoniano come dopo quattordici anni di Sei Nazioni la Nazionale, eccezion fatta per alcune edizioni, non sia progredita poi così tanto e, soprattutto, che la base della piramide non sembri ancora in grado di sostenere responsabilità e pressioni così pesanti. Perché i Parisse, i Castrogiovanni, i Ghiraldini e così via rappresentano solo la punta dell’iceberg, lo spettacolo da mandare in onda mentre dietro le quinte c’è un intero movimento che brancola nel buio sotto molti aspetti e perennemente in affanno nel conferire all’Italia rugbistica l’amalgama e l’organizzazione necessari per sfruttare al meglio le risorse a disposizione. Continuare con le poche certezze attualmente in seno al rugby azzurro, a fronte delle crescenti aspettative della platea italiana, ammorbidirebbe soltanto temporaneamente la caduta libera della Nazionale e, ora, della Banda Brunel.

Un gruppo, quello guidato dal ct transalpino, anch’esso con delle chiare ed evidenti colpe gravanti sul proprio conto, in primis la poca cattiveria mostrata in troppi momenti decisivi per l’equilibrio dei match e un orgoglio, da sempre peculiarità dell’Italrugby, mai così poco in mostra. Un crollo prettamente psicologico, quasi impronosticabile dopo la prestazione tutta grinta e furore agonistico sfoderata niente meno che a Cardiff, per giunta all’esordio, quando invece era attesa una dura lezione dai campioni in carica del Galles. Ottanta minuti di Italia come non la si vedeva dalla stagione precedente, ma anche l’ultima grande illusione prima delle debacle, prima del ridimensionamento definitivo. Il primo tempo contro la Francia, di fatto, ha rappresentato il canto del cigno. Da quel momento, gli azzurri hanno subito ben 140 punti, offrendo in particolare delle contro-prestazioni difensive su cui dovrà porre la sua principale attenzione Brunel, naturalmente non esente da responsabilità ma uno dei minori colpevoli dell’affondamento dell’imbarcazione italiana. La sua squadra è apparsa smarrita nel collettivo prima che nell’organizzazione di gioco e non ha mai dato – se non a sprazzi – l’impressione di potersi rendere davvero pericolosa per la difese avversarie. Quella consapevolezza acquisita tra novembre 2012 e Sei Nazioni 2013, in pratica, è svanita per far posto ad una sorta di complesso di inferiorità che pensavamo ormai essere un lontano ricordo, senza contare la questione celtica con tutte le conseguenze (negative) del caso.

Eppure, gli spunti positivi non sono mancati e rispondono ai nomi di Michele Campagnaro, Leonardo Sarto, Tommaso Allan e Angelo Esposito, ovvero la cosiddetta Linea ’90. Giovani, forti e di belle speranze. I possibili futuri pilastri dell’Italrugby del futuro, insomma. A patto che, ovviamente, siano sostenuti da delle solide fondamenta, adatte a sorreggere dei simili talenti e che tutti lavorino nella medesima direzione. L’unica per uscire dal tunnel.

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daniele.pansardi@olimpiazzurra.com

Foto: Fotosportit/FIR

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