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‘Cogito, ergo sport’: l’ultima “trasferta” del Grande Torino
“Ma perché diavolo volete tutti la mia macchina?”
Dal film Gran Torino
La “macchina” che tutti avrebbero desiderato, come quella di Clint Eastwood, una perfetta macchina da guerra negli infuocati anni Quaranta. Le bombe che lanciavano non erano paragonabili a quelle su Hiroshima e Nagasaki ma colpivano il bersaglio e facevano esplodere gli stadi con la massima intensità; quei loro tiri erano meno potenti delle mitragliate, ma non meno efficaci; le corse, avanzate e le ritirate meno estese di una guerra di movimento ma altrettanto rapide. Era chiamato “Grande”, come la Prima Guerra Mondiale, ed era già un pezzo di storia negli anni della Seconda: era il Grande Torino, la leggenda del calcio italiano, l’immagine bella di un’Italia che andava lacerandosi assieme al resto del mondo.
Esisteva ancora una speranza di ripristinare quell’unità spezzata, di ridare fiducia a un popolo sconfitto, accusato, tradito, perduto, e quella speranza erano gli italiani di ogni regione riuniti in un’unica grande squadra, la più Grande, quella che conquistò cinque scudetti consecutivi in soli otto anni, che era capace di segnare sette goal al secondo tempo partendo dall’1 a 0 per gli avversari. Era la squadra guidata da Valentino Mazzola, composta dalle stelle della Nazionale italiana: dieci calciatori in campo su undici erano i “granata” nella storica partita del “47 contro l’Ungheria. Una Torino che, in nome dell’Italia, cercava di reagire non solo materialmente ma anche spiritualmente ai colpi delle armi da fuoco, alle morti, ai tragici destini.
Nessun colpo tuttavia apparve più grande quel 4 maggio 1949 quando la strage di Superga piombò sulle vite di tifosi e non, italiani e non italiani. Trentuno stelle cadute in volo, troppo grandi forse, supergiganti rosse che di energia da bruciare ne avevano ancora ma che esplosero in supernove prima del tempo.
Quel giorno, al ritorno da una trasferta a Lisbona, l’aereo su cui viaggiavano i campioni d’Italia, lo staff, giornalisti ed equipaggio si schiantò per una fitta nebbia sui muraglioni di sostegno nel giardino della Basilica di Superga. L’Italia sentì la propria ferita riaprirsi prima di avere avuto il tempo di guarire dal dramma bellico appena consumato. Una “trasferta” del Grande Torino, come la chiamerà Indro Montanelli, che rese immortali quei campioni divenuti eroi prima ancora di dissolversi in polvere di stelle.
Come disse Margherita Hack, “tutta la materia di cui siamo fatti noi l’hanno costruita le stelle, tutti gli elementi dall’idrogeno all’uranio sono stati fatti nelle reazioni nucleari che avvengono nelle supernove, stelle molto più grosse del Sole che alla fine della loro vita esplodono e sparpagliano nello spazio il risultano di tutte le reazioni nucleari avvenute al loro interno. Per cui noi siamo veramente figli delle stelle”, per cui noi siamo figli di quelle leggende del calcio italiano, volto della vittoria nazionale negli anni della sconfitta mondiale, le stelle dalle quali veniamo e a cui torniamo perché d’altronde “la vita è solo un viaggio all’estero” (Walter Moers) o, come in questo caso, in trasferta.