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MotoGP, 20 anni fa moriva Daijiro Kato. ‘Il messia’ del Sol Levante, il cui destino non si è mai compiuto

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Daijiro Kato

Oggi cade il ventesimo anniversario della scomparsa di Daijiro Kato, il cui cuore smise di battere due settimane dopo l’incidente che, durante il Gran Premio del Giappone 2003, pose prematuramente fine alla sua vita. Il pilota nipponico merita di essere ricordato a dovere. In primis per il fascino e le dinamiche uniche della sua carriera, ma soprattutto in virtù di ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato, stroncato da un destino crudele.

Kato compare sulla scena internazionale a Suzuka, nel 1996. Corre con una wild card in 250cc e da esordiente assoluto chiude terzo, battendo tutti i piloti Honda impegnati nel Motomondiale! Sparisce, nel senso di limitarsi a correre nel campionato giapponese, per riapparire in ambito iridato solo nel 1997. Stesso luogo, stessa classe, ancora wild card. Stavolta vince. Poi si eclissa di nuovo fino al 1998, quando, prima di imporsi per la seconda volta, si prende anche la pole position. Dopodiché, nuovo dileguamento dal palcoscenico del Motomondiale! Visto dall’esterno, Daijiro diventa un oggetto di culto. Corre una volta all’anno, bastona tutti e se va. Sembra il profilo di un personaggio di un manga e, dato il suo aspetto, potrebbe veramente essere uscito dalla matita di un mangaka.

In Giappone, però, la sua figura ha connotati tremendamente seri, soprattutto a Saitama, sede del quartier generale HRC, dove sono sicuri di aver trovato il centauro a cui affidare il compito supremo. Honda trionfa a ripetizione, ma da quindici anni i successi pesanti arrivano con gli americani e gli australiani. Il sogno è quello di portare un giapponese a vincere il Mondiale della 500cc. Dal punto di vista dell’azienda nipponica, sarebbe l’apogeo assoluto, il non plus ultra nel senso più letterale del concetto.

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Qualche tempo prima si era fatto un pensierino su Norifumi Abe, ma Norick non aveva avuto pazienza. Anzi, aveva “tradito la causa”, facendosi irretire dalla proposta di Kenny Roberts di correre subito a tempo pieno nel Motomondiale. Così aveva abbandonando l’Ala per salire in sella a una Yamaha. A Saitama avevano però proseguito la ricerca “dell’eletto”.

Nella seconda metà degli anni ’90 i migliori “cavalli” usciti daell’allevamento HRC sono Tadayuki Okada, Shinichi Itoh e Tohru Ukawa. In particolare il primo gareggia con discreto successo nel Campionato iridato. Non vale né Mick Doohan, né Alex Crivillè, ma quantomeno non sfigura al loro cospetto. Honda, sapendo quanto vale ‘Taddy’ e ricordandosi di quanto poteva valere Abe, si rende conto come Kato sia diverso. Ha qualcosa in più. Un talento puro, seppur da far maturare. Se Okada rende “X”, allora è palese che Daijiro possa fare meglio. Molto meglio. Non ci sono dubbi, è lui il tanto atteso “messia”.

Proprio per questo l’Ala lo coltiva e lo cresce con cura. Con lui si ragiona in maniera diversa, prettamente giapponese. Non importano le quantità o i numeri, conta l’opera in sé. Vincere un Mondiale con un centauro nipponico è concepito come un progetto da sviluppare nei dettagli e con pazienza. Quella che Abe, ammesso potesse essere all’altezza, non aveva avuto. Proprio per questo Kato viene custodito con la massima cura, un gioiello mostrato occasionalmente, nell’attesa di venire incastonato nella corona giusta.

Con l’arrivo del XXI secolo, a Saitama si decide di fare sul serio. Dal 2000 comincia la missione suprema. Daijiro disputerà la sua prima stagione a tempo pieno nel Motomondiale, partendo dalla 250cc, cilindrata che conosce benissimo, venendo affidato al Team Gresini. L’annata da rookie conferma come le speranze siano ben riposte. Quattro podi e una vittoria nelle prime quattro gare lo lanciano in testa al campionato. Durante l’estate paga l’inesperienza su diversi tracciati europei. Poi, però, si impone altre tre volte in autunno e arriva all’ultimo GP ancora in corsa per il titolo. Chiude terzo, ma è il migliore tra i piloti Honda e, complessivamente, si dimostra superiore al più esperto Tohru Ukawa (con il quale trionfa nella popolarissima 8 ore di Suzuka, assurgendo al ruolo di star in Giappone).

HRC ha le conferme che cercava e lo lascia in 250cc con l’obiettivo di laurearsi Campione nel 2001. Kato non tradisce e sbaraglia la concorrenza. Vince 11 gare su 16, stabilendo il nuovo primato di affermazioni in una singola stagione per la quarto di litro. Ogni dubbio viene spazzato via, Daijiro può raggiungere il tetto del mondo anche nella classe regina, alla quale viene promosso nel 2002. È il primo anno della MotoGP, ma a lui viene inizialmente affidata una vecchia 500 a due tempi. Le quattro tempi nuove fiammanti sono riservate ai rider del factory team. Non c’è fretta, la “missione titolo” va pianificata con la massima perizia e ciò che importa è accumulare esperienza. Con l’obsoleta NSR500 Kato si piazza secondo a Jerez de la Frontera. Poi, in estate, gli affidano una RC211V. Lui è subito secondo a Brno e si pianta in pole position a Motegi. Non c’è continuità, ma è comprensibile. Il contesto, per lui, è totalmente nuovo. Mai aveva corso in una cilindrata superiore alla 250cc. Ciononostante, produce dei lampi abbaglianti.

Nel 2003 finalmente si rompono gli indugi. Daijiro continua a correre nel Team Gresini, ma avrà una moto e un trattamento da ufficiale, dunque in tutto e per tutto analogo a quello di Valentino Rossi nel Team Repsol. Comincia, per davvero, l’assalto al Mondiale. Il destino però è infame. Il lavoro di anni, il sogno di Honda e, soprattutto, una vita umana svaniscono nell’arco di pochi istanti.

A Suzuka, il 6 aprile, al terzo giro della gara inaugurale della stagione, Kato si schianta a 200 km/h contro il muretto della chicane Casio in un incidente dalla dinamica misteriosa. Non ci sono neppure immagini televisive del botto. Sembra tutto assurdo e surreale, anche perchè il pilota viene messo frettolosamente su una barella e il GP prosegue come se nulla fosse, nonostante il tremendo impatto abbia dilaniato la colonna vertebrale all’altezza del collo. Il cuore dell’asiatico continua a battere per altre due settimane, dopodiché si spegne definitivamente.

Le cause dell’accaduto non vengono mai chiarite. Honda lo imputa al muretto troppo vicino al nastro d’asfalto ed eventualmente alla foga del centauro, impegnato a rimontare dopo una brutta qualifica. La conclusione è che la colpa sia della pista. Dorna prende tutto per buono. Liquida per sempre Suzuka e non fa un plissé relativamente al rapporto dell’azienda giapponese, nonostante i dati telemetrici non vengano resi pubblici.

Si vocifera, infatti, che HRC stesse segretamente sperimentando un futuristico acceleratore ride-by-wire  proprio sulla RC211V affidata a Daijiro e che il sistema si sia bloccato, restando aperto quando avrebbe dovuto chiudersi, spedendo il nipponico contro il muro. Speculazioni mai confermate. Però, al tempo stesso, nessuno ha neppure mai smentito quanto scritto da Enrico Borghi sulla rivista Motosprint, ovvero che la causa dell’incidente fosse da ricercare in un malfunzionamento del mezzo meccanico.

La terza Honda ufficiale passa nelle mani di Sete Gibernau, compagno di squadra in Gresini, il quale diventa di punto in bianco contender per il titolo dopo anni da comprimario. Alla luce di questo salto di qualità, non sapremo mai come si sarebbe sviluppata la carriera di Kato e se avrebbe coronato l’impresa di laurearsi Campione del Mondo. Di certo c’è che, con la sua morte, il Giappone non ha più avuto un pilota dello stesso livello, il motociclismo ha perso un centauro dal talento sopraffino e un ragazzo umanamente apprezzato da tutti. Non per caso, il suo ricordo è ancora vivo dopo due decenni.

Foto: Rikita / Licensa Creative Commons Wikipedia

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