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Biathlon
Combinata nordica, sono finiti alibi e giustificazioni. L’addio di Annika Sieff fa suonare una raggelante campana
Il biathlon è uno degli sport più popolari e meglio gestiti a livello globale. Viceversa, la combinata nordica patisce sotto entrambi gli aspetti. Cosa hanno in comune i due ambiti? Il fatto di inglobare al loro interno altre discipline, ma anche la dinamica di avere un settore femminile nato decenni dopo quello maschile. Al riguardo, nel perorare la causa della combinata rosa si è spesso fatto il parallelismo con il biathlon riservato alle donne di fine anni ’80.
Nonostante vi siano poche atlete (basta iscriversi a una gara di Coppa del Mondo per marcare punti) e la competitività sia quella che sia, soprattutto fra seconde e terze linee, si è sempre sostenuto come fosse doveroso avere pazienza. Si è partiti da zero e proprio il biathlon rappresentava un punto di riferimento da ogni prospettiva lo si guardasse. Cionondimeno, la situazione sta mutando. Non per caso si utilizza il verbo “mutare” anziché “evolvere”, in quanto di evoluzione ve n’è ben poca.
La scelta di Annika Sieff di specializzarsi nel salto con gli sci non è un episodio e, soprattutto, non rappresenta un semplice campanello d’allarme. Chi di dovere dovrebbe udire una sirena, perché se analizzasse l’accaduto, si renderebbe conto di quanto preoccupante sia il segnale lanciato dall’evento. La combinata nordica femminile ha rimpolpato le proprie fila grazie a una serie di saltatrici che, non riuscendo a emergere, si sono riciclate. Alcune con successo (Veronica Gianmoena), altre meno (Claudia Purker), altre ancora pur tenendosi in piedi non hanno rispettato le aspettative (Svenja Würth).
Situazione verificatasi anche nel biathlon rosa, soprattutto negli anni ’90 e al principio del XXI secolo. Per intenderci, la donna con più affermazioni in gare di primo livello è ancora oggi Magdalena Forsberg. La prima atleta capace di fregiarsi della “Triplice Corona” è stata Kati Wilhelm. La più grande biathleta russa di ogni tempo è tutt’ora Anfisa Reztsova. Tutte e tre hanno in comune il fatto di essere nate nello sci di fondo, ma di aver raggiunto il picco della propria carriera nel biathlon. Però il discorso può essere applicato anche al presente (Denise Herrmann-Wick) e, chissà, magari al futuro (Anamarija Lampic).
C’è però un dato fattuale che non può essere ignorato. Nel biathlon femminile di 35/40 anni fa, le giovani di prospettiva restavano dov’erano e si costruivano lì la loro carriera. Non s’è mai vista una teenager del calibro di Sieff (cinque podi in Coppa del Mondo e due ori iridati junior al collo) gettare la carabina nella neve per specializzarsi nello sci di fondo. Se c’era da scegliere, si perseguiva sulla via intrapresa. Non la si cambiava alla prima occasione, preferendo una deviazione sterrata e piena d’incognite a una strada asfaltata. Perché?
Perché, per molte discipline sportive, il burrone dell’irrilevanza può essere superato solo con il ponte olimpico. Quello del biathlon era solido, ben costruito e per di più in fase di ammodernamento grazie a ingegneri illuminati. Al contrario, quello della combinata è fatiscente, scricchiola e curato da ingegneri (molto) meno brillanti. Però non si tratta di una questione legata al settore rosa, bensì allo sport tout court.
Eccola la grande differenza tra biathlon e combinata nordica. Per il primo, l’apertura alle donne fu un processo fisiologico di naturale espansione. Per la seconda si tratta invece di una forzatura, nei tempi e nei modi, per provare a salvare la pelle nell’ottica a Cinque cerchi.
Il circuito femminile del biathlon ha sfruttato la scia di quello maschile, raggiungendo poi la stessa velocità di crociera. Anzi, a tratti ha rappresentato l’attrazione principale, come nell’epoca di Magdalena Neuner. La controparte rosa della combinata nordica non può fare altrettanto, perché l’ambito originario sta rallentando da tempo e procede solo per forza d’inerzia.
D’altronde, che conclusioni si devono trarre se le combinatiste giovani che possono specializzarsi nel salto con gli sci lo fanno, mentre il percorso inverso lo intraprendono solo atlete navigate senza più prospettive nell’habitat originario? La scelta di Sieff non è un campanello d’allarme, per niente. A voler essere cattivi è un altro genere di campana. For Whom the Bell Tolls scrisse Ernest Hemingway. Ci siamo capiti, vero?
Foto: La Presse