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Storie Mondiali: il dramma brasiliano e l’eroe buono Varela

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Tra due mesi, il Brasile con le sue mille sfaccettature ospiterà la ventesima edizione del campionato mondiale di calcio: una volta alla settimana, su Olimpiazzurra ci avvicineremo a questo grandissimo evento con una pagina storica, racconti di vicende e personaggi più o meno noti, di partite epiche, di avventure azzurre. Di tutto ciò, insomma, che fa parte del mito dei Mondiali. E siccome si giocherà in Brasile, non si può non partire dall’unica edizione disputata in terra verdeoro e dal suo incredibile finale, passato alla storia come Maracanazo.

Il 16 giugno 1950, al Maracanà di Rio de Janeiro, va in scena l’ultimo atto del primo Mondiale postbellico, dodici anni dopo la chiusura dell’epopea dell’Italia di Pozzo. Da un lato il Brasile, la squadra che DEVE vincere; dall’altro l’Uruguay, che però ha nelle vene la gloria, la storia, la passione di chi, vent’anni prima, aveva conquistato la prima Coppa del Mondo. Si arriva all’ultimo atto dopo un sistema particolare:quattro gruppi eliminatori e un girone conclusivo con le vincenti dei primi raggruppamenti, senza che, caso unico, si disputi una finale secca. Nella prima fase, il Brasile distrugge Messico e Jugoslavia (4-0 e 2-0), incappando però nel sorprendente catenaccio svizzero (2-2) che comunque non frena la sua marcia;  nella seconda, un 7-1 alla Svezia e un 6-1 alla Spagna mettono i padroni di casa nella condizione di avere a disposizione due risultati su tre contro l’Uruguay nell’ultima partita del torneo. La Celeste, d’altro canto, aveva sconfitto 8-0 la mediocre Bolivia (girone eliminatorio, per via di alcuni ritiri, di sole due squadre) e aveva poi pareggiato 2-2 con la Spagna, strappando un sofferto 3-2 alla Svezia, nel girone finale; dunque, per bissare il titolo del 1930, bisogna vincere contro il Brasile. Al Maracanà. Davanti a 200.000 brasiliani. Può vincere l’Uruguay?

No, non può vincere. Non perché sia una squadra scarsa, anzi: a fianco del trentatreenne Obdulio Varela, roccioso mediano soprannominato El Negro Jefe (il capo nero),  e di altri elementi di esperienza, molti ragazzi giovani e di talento, come il venticinquenne Pepe Schiaffino e il ventiquattrenne Alcides Ghiggia, completano quella che è, a tutti gli effetti, una bella squadra. Ma il Brasile…il Brasile ha Zizinho, la stella incontrastata, l’atleta che costituisce il modello di un giovane Pelè. Il Brasile ha Ademir, 32 gol in 37 gare in nazionale. Il Brasile è spettacolo, classe, tecnica, gol a raffica; il Brasile è pubblico, una nazione intera che per settimane, mesi, forse anni, ha aspettato questo momento, perché, un po’ come l’Inghilterra, il Brasile si sente IL calcio. Non ultimo, il Brasile ha a disposizione due risultati su tre e gioca in casa. Ma…

Era tutto previsto, tranne la vittoria dell’Uruguay (Jules Rimet, presidente della FIFA e ideatore della Coppa del Mondo)

Sì, perché, bando ad ogni scaramanzia, a Rio, a San Paolo e nelle altre città si festeggia, come in un eterno carnevale, già nei giorni antecedenti al match. 500.000 magliette con la scritta Brasil Campeão vengono vendute, i quotidiani del giorno stesso si esibiscono in titoli trionfalistici, i proclami dei politici parlano già del grande trionfo brasiliano. Allo stesso tempo, però, la formidabile macchina da guerra verdeoro non ha un momento di tranquillità: basti pensare che, nel giorno della “finale”, il pranzo dei giocatori viene puntualmente interrotto dal pellegrinaggio di dirigenti e politici di ogni genere i quali vogliono stringere la mano ai nuovi eroi nazionali. Il pubblico scalpita e arriva ad infastidire gli uruguayani giunti allo stadio, che ovviano alla grande confusione disponendo una serie di materassi negli spogliatoi. Quando è il momento di entrare in campo, però, l’impatto con quelle 200.000 persone non può essere evitato e al tempo stesso può tagliare le gambe ai giovani della Celeste: qui, tuttavia, esce fuori la grandezza di Obdulio Varela, con la sua celebre esclamazione:

Los de afuera…son de palo! Y en el campo, seremos once para once(Quelli fuori…non esistono! In campo, saremo undici contro undici).

Insomma, l’Uruguay non alza gli occhi e sfugge al devastante impatto del pubblico del Maracanà. Il generale de Morais prende la parola e saluta “voi, brasiliani, che io considero Campioni del Mondo“, esaltando ulteriormente pubblico e giocatori. Ma in campo, appunto, si è undici contro undici. Il 2-3-4-1, o VM, brasiliano, contro il più concreto metodo degli avversari, una sorta di 4-1-2-3. Il primo tempo scorre veloce: non vacilla la concretezza della retroguardia celeste, e anzi i carioca vivono qualche attimo di panico con un paio di azioni di contropiede. Pronti via, in avvio di  ripresa Friaça realizza il vantaggio dei brasiliani scatenando l’esaltazione di compagni e pubblico; qui viene nuovamente fuori la grandezza di Varela.

I brasiliani ardevano di giubilo e chiedevano altri gol. Quella modesta squadra uruguayana, seppur temibile, era una buona preda per conquistare il titolo mondiale. Forse l’unico che seppe capire la drammaticità di quell’istante, di ponderarla freddamente, fu il grande Obdulio, capitano-e molto più-di quella squadra giovane che cominciava a disperarsi” (Osvaldo Soriano, “Fútbol”)

Già, Varela ritarda la ripresa del gioco; recupera il pallone in fondo al sacco e, con una flemma invidiabile, va a questionare con l’arbitro per un presunto fuorigioco, chiedendo addirittura l’auslio di un interprete. Questo, appunto, mentre il Maracanà in versione cannibale avrebbe voluto immediatamente la palla al centro, per riprendere a giocare e trascinare il Brasile ad un altro gol e poi ad un altro ancora, come già accaduto tante volte in quel Mondiale. Ma Varela non ci sta: perde tempo, passano due o tre minuti, guarda con occhi di sfida il pubblico inferocito…ed è lì che vince il Mondiale.

Al minuto 66, Ghiggia (l’unico ancora vivo di quei 22, oggi) parte in velocità, serve Schiaffino che infila di precisione il portiere Barbosa; nonostante il pareggio, è bene ribadirlo, consentisse ancora alla Seleção di trionfare, la paura prende possesso del Brasile e dei brasiliani. E l’Uruguay, con una crescente convinzione, ci prova, ci prova fino in fondo: 13′ più tardi, è Ghiggia a siglare il clamoroso raddoppio beffando Barbosa sul suo palo. Dal trionfo, alla paura, al gelo più totale: nei 10′ finali, nessuno parla e nessuno canta al Maracanà, si sentono solo gli incitamenti di Varela, vero allenatore in campo, per organizzare i suoi compagni su ogni azione. I padroni di casa ci provano, ma con la forza della disperazione e non con la tecnica e la velocità di sempre, e il trentatrenne Roque Máspoli sventa tra i pali uruguaiani le poche occasioni avversarie…sino all’ultimo secondo, quando il pubblico brasiliano riprende a incitare a tutta voce i propri eroi, e un calcio d’angolo dalla destra viene letteralmente parato da Mono Gambetta, difensore senza troppi fronzoli della Celeste. Rigore? No. Nel trambusto conclusivo, Gambetta è l’unico ad avvertire distintamente il triplice fischio dell’arbitro britannico Reader. Triplice fischio che significa Uruguay campione del mondo e Brasile condannato alla disperazione.

E disperazione, in effetti, avvolge un popolo intero, tormentadolo per anni. Decine di persone muoiono per un attacco di cuore, altrettante arrivano persino a suicidarsi, anche perché in molti avevano scommesso tutto su quella che appariva una vittoria davvero scontata. Il portiere Barbosa, certo non impeccabile sulla seconda rete, è condannato a cinquant’anni (morirà nel 2000) di inferno terreno, perché ad ogni uscita pubblica verrà sempre additato, da vecchi e giovani, come il responsabile della catastrofe. Celebre la sua citazione “la sentenza più pesante in Brasile è trent’anni, ma la mia prigionia è durata cinquanta“.

Quella sera, racconta Soriano, Varela uscirà con i compagni nei bar di Rio, e toccherà con mano la disperazione, l’agonia di migliaia e milioni di persone. “Obdulio ci ha fottuti” – si sente dire da un avventore, prima che il proprietario del locale gli indicasse che Obdulio, proprio lui, era lì di fianco. Ma i tifosi brasiliani rispettano questo straordinario campione e, nonostante il suo comprensibile terrore iniziale, gli offrono da bere.

Mi sentivo male. Mi sono accorto che ero amareggiato quanto quel tizio. Sarebbe stato bello vedere quel carnevale, vedere come la gente se la spassava per una cosa così semplice. Noi avevamo rovinato tutto e non avevamo ottenuto niente. Avevamo un titolo, ma cosa importava in confronto a tutta quella tristezza?”

 

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marco.regazzoni@olimpiazzurra.com

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