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Editoriali

‘Italia, come stai?’: luci e ombre dal ciclismo su pista; Fognini non cambia mai

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I Mondiali di ciclismo su pista disputati a Saint-Quentin-en-Yvelines (Francia) hanno portato all’Italia un netto miglioramento rispetto all’edizione 2014: la selezione tricolore è passata da zero a due medaglie, di cui una arrivata in una disciplina olimpica. Non male dunque, ma ancora decisamente troppo poco al cospetto delle grandi potenze di questa disciplina.

Partiamo dalle note liete. Elia Viviani da ormai diversi anni appartiene alla ristretta cerchia dei big del massacrante omnium. Il nuovo format, con la corsa a punti nel finale a rivestire un ruolo quasi determinante, favorisce ulteriormente l’azzurro. O almeno dovrebbe, considerando che in Francia questo non è avvenuto, forse anche a causa del venir meno delle energie proprio in occasione della prova conclusiva. Negli anni il 26enne veronese ha compiuto dei passi da gigante impressionanti, diventando pressoché completo. In quattro delle sei prove in programma, infatti, è in grado di primeggiare: scratch, eliminazione, giro lanciato e corsa a punti. Per quanto riguarda l’inseguimento individuale, ha già dimostrato di poter offrire un rendimento migliore, così come nel km da fermo, suo unico, vero tallone d’Achille. Insomma, una competitività di questo genere fa sì che difficilmente Viviani possa uscire dal podio in tutte le competizioni cui prende parte: nelle ultime due, non a caso, ha conquistato un oro agli Europei ed un bronzo ai Mondiali. E’ chiaro che per puntare alla medaglia del metallo più prezioso a Rio bisognerà progredire ulteriormente proprio nelle specialità contro il cronometro. Il neo-iridato colombiano Fernando Gaviria, inoltre, ha sfoderato delle prestazioni monstre e sarà un avversario durissimo da battere, ma di certo non fuori portata per Viviani.

Quest’ultimo, inoltre, ha vinto anche l’argento nella madison insieme a Liam Bertazzo, la vera rivelazione italiana di questi Mondiali, in cui ha compiuto un significativo salto di qualità. testimoniato anche dal sesto posto nella corsa a punti. Classe 1992, il veneto in questa stagione proverà a ritagliarsi un ruolo di primo piano anche su strada con la Yellow Fluo. E arriviamo proprio allo storico e decennale problema del ciclismo su pista italiano: la mancanza di una collaborazione stretta, progettuale e lungimirante con la strada. Se qualcosa di buono si sta facendo in campo femminile, tra gli uomini Viviani e Bertazzo rappresentano delle eccezioni o quasi. Eppure in passato abbiamo ammirato esempi di grandissimi campioni stranieri che hanno dominato tutto in entrambe le specialità, su tutti il britannico Bradley Wiggins. Attualmente, inutile girarci a torno, nel ciclismo su pista italiano credono solo i tecnici e la Federazione, che vi lavorano con grande passione e, soprattutto, professionalità. A non crederci, tuttavia, sono le squadre italiane di club, in particolare quelle dilettantistiche, nelle quali spesso i velodromi sono visti alla stregua di un fastidio. Se diamo uno sguardo alle specialità olimpiche, in campo maschile, tolto l’omnium di Viviani, l’Italia è una spettatrice non pagante: comparsa nell’inseguimento a squadre, per non parlare della velocità, un vero pianto greco. Dopo il ritiro di Roberto Chiappa nel 2010, il Bel Paese non ha più saputo modellare un solo velocista quanto meno discreto a livello mondiale. E, cosa ancor più grave, non si intravedono salvatori della Patria tra i giovanissimi, proprio perché vi è l’impossibilità di lavorare sui ragazzi in giovane età sulla specializzazione di discipline come velocità e keirin.

Il discorso è lievemente diverso per le donne, dove l’interscambio tra strada e pista avviene con maggiore facilità. La probabile qualificazione alle Olimpiadi dell’inseguimento a squadre costituisce già un grande passo avanti, mentre per Tokyo 2020 bisognerà assolutamente lavorare su due giovanissime (classe 1997) come Elena Bissolati e Miriam Vece, due talenti purissimi che davvero potrebbero rilanciare la velocità (la quale, ricordiamo, assegna ben tre ori a cinque cerchi…).

Il torneo Atp di Rio de Janeiro ha messo in risalto l’intera l’essenza di Fabio Fognini. Prima una semifinale da sogno con Rafael Nadal, sconfitto per la prima volta in carriera con un gioco formidabile da fondo campo, fatto di accelerazioni di diritto ed una solidità da giocatore di alto livello. In finale, poi, puntuale è arrivata la solita trasformazione da Dott. Jekyll a Mr. Hide. Alle prime difficoltà incontrate contro un il ‘muro’ eretto dallo spagnolo David Ferrer, il ligure ha cominciato come suo solito ad imprecare e lanciare racchette, disperdendo così preziose energie mentali e vedendo scivolare via velocemente il match. A quasi 28 anni anni, è pressoché impossibile che un uomo possa mutare il proprio carattere. Fognini è questo, prendere o lasciare. Un giocatore che rischia di essere ricordato per qualche brillante exploit isolato, con tanti rimpianti per aver lasciato per strada dei traguardi non inarrivabili (top10 in primis) per delle qualità sotto gli occhi di tutti.

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federico.militello@olimpiazzurra.com

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