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Basket, NBA: la rivincita di Kevin Durant. Dopo le tante critiche un titolo conquistato da protagonista

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Il tormentone della stagione NBA appena concluso è stato uno ed uno solo: la scelta di Kevin Durant di unirsi ai Golden State Warriors. Subito dopo l’annuncio, arrivato all’inizio della scorsa estate, una pioggia di critiche ha investito l’MVP della stagione 2014 al grido di ti piace vincere facile?. La squadra di San Francisco infatti, era considerata all’unanimità la più forte del biennio: Steph Curry e compagni avevano vinto il titolo l’anno precedente (2015) ed erano reduci dall’aver firmato il miglior record della storia in regular season (73-9), pur avendo perso la finale contro Cleveland in gara 7. Nel loro percorso tra l’altro, i Warriors avevano eliminato nella finale della Western Conference proprio gli Oklahoma City Thunder di Kevin Durant: if you can’t beat them, join them’, ‘se non puoi batterli, unisciti a loro’. Era questa la frase più inflazionata che circolava sulla stampa d’oltreoceano.

Il tema centrale delle critiche che KD35 ha ricevuto riguardava quella sorta di legge non scritta secondo cui una superstar del suo calibro non può unirsi ad un team già forte ma deve essere lui il protagonista, l’attore principale della squadra per cui gioca. Non c’è cosa più sbagliata in uno sport di squadra che ridurre una qualsiasi formazione ad un singolo giocatore. Certo, nessuno nega l’impatto di Michael Jordan o di LeBron James (giusto per citarne due a caso) nel guidare le rispettive squadre ai loro trionfi (e ci mancherebbe), ma ciò non vuol dire che il contributo dei loro compagni non sia stato poco importante o decisivo. Durant non ha fatto altro che quello che qualunque uomo farebbe nella propria vita o carriera: semplicemente cercare la soluzione migliore per raggiungere il proprio obiettivo personale. Nel suo caso, il titolo NBA.

Le critiche rivolte a Durant sotto questo punto di vista inoltre, si dimostrano inconsistenti perché avrebbero potuto essere destinate, secondo la stessa logica, anche ai Golden State Warriors, cosa che non è avvenuta. La squadra più forte della NBA, autrice del record di vittorie in regular season, ha bisogno di una superstar per vincere. Le “colpe” (ma qui non ce n’è nessuna, anzi) vanno sempre divise: perché allora è stato KD a scegliere i Warriors, a cercare la soluzione facile e comoda, e non viceversa? Anche a Golden State piace vincere facile? La domanda è retorica ma per chi volesse una risposta, basta spostarsi qualche riga più su: cercare la soluzione migliore per raggiungere il proprio obiettivo personale. Anche in questo caso, il titolo NBA. Alzi la mano chi ritiene condannabile provare a vincere nello sport.

Alla prima palla a due della stagione 2016/17 quindi, le spalle di Kevin Durant erano pesanti, molto pesanti: era praticamente condannato a vincere. Per i Warriors il destino era lo stesso: vincere sarebbe stato la normalità, non farlo avrebbe significato il fallimento. Ecco quindi, che alla prima sconfitta (sonora, nella partita d’apertura contro i San Antonio Spurs) quelle critiche si sono moltiplicate in maniera esponenziale. KD ha scelto la via del silenzio, del lavoro: ha aspettato che la risposta fosse affidata al campo, nel momento giusto. Quale, se non le NBA Finals? I Warriors hanno vinto il titolo sì, ma non è stato così scontato come in tanti si aspettavano. Di fronte avevano i loro acerrimi rivali, i Cleveland Cavaliers, che guidati dal miglior giocatore di questa epoca, LeBron James, hanno disputato una serie ad altissimo livello, costringendo i loro avversari a tirare fuori il meglio. Le cinque partite sono state infatti uno spettacolo per gli amanti della pallacanestro.

Obiettivo raggiunto quindi, per i Warriors e soprattutto per Durant, direbbero i critici. Vincere però non è mai facile e Kevin lo ha fatto da protagonista. Non ha vinto perché ha giocato nella squadra più forte ma è stato lui a renderla praticamente imbattibile. KD è stato il miglior realizzatore dei Warriors in tutte e cinque le partite, chiudendo le Finals con una media stratosferica di 35.7 punti. Non sono state però le cifre ad impressionare, quanto l’impatto: Durant ha segnato nei momenti decisivi, quando la sua squadra ne aveva bisogno, senza sbagliare praticamente nulla nei finali di gara. È stato capace inoltre, di oscurare anche LeBron James, nonostante abbia chiuso la serie con una storica tripla doppia di media. L’abbraccio finale tra i due infatti, la dice lunga sul rispetto e sul riconoscimento del talento reciproco.

Probabilmente questo non basterà a placare “l’odio” dei critici, ma anche questo fa parte della carriera di una superstar (chi meglio di LeBron James può capirlo?). Giudicare un giocatore solo dai risultati, cosa già alquanto criticabile, ora non basta più: lo si giudica, e quindi lo si critica, anche per come decide di vincere. La storia ed il campo hanno dato ragione ai Warriors e a Kevin Durant: hanno cercato la strategia più efficace per vincere e ci sono riusciti. E pazienza se questo fa storcere il naso a molti. KD è entrato nella cerchia dei giocatori vincenti e lo ha fatto in maniera prepotente, non lasciando che fossero gli altri a farlo ma prendendosi lui il posto che gli spettava di diritto nella storia di questo gioco. Con buona pace di chi la considera una vittoria facile.

 

alessandro.tarallo@oasport.it

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Foto: pagina Twitter Golden State Warriors

 

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