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Sport&Letteratura: Gianni Brera, il rivoluzionario del giornalismo italiano

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Gianni Mura l’ha definito “un grande fiume senza mai problemi di siccità” e, a distanza di venticinque anni dalla sua scomparsa in un tragico incidente stradale, è ancora forte l’eredità culturale di uno dei più grandi giornalisti sportivi italiani del dopoguerra: Gianni Brera o, come amava definirsi lui stesso, Gianni Brera Fu Carlo.

A ricordare la straordinaria abilità linguistica e la profonda cultura del giornalista pavese ci ha pensato una raccolta dei suoi principali articoli, Il principe della zolla (ll Saggiatore, 2015) con introduzione di Gianni Mura e presentazione del figlio Paolo Brera; pagine che ci raccontano non solo il giornalista sportivo ma anche un grande amante della bicicletta e un fine conoscitore della buona cucina. Eppure, da giovane, non sembra che Brera avesse la vocazione letteraria. Come comincia a scrivere lo racconta lui stesso nel racconto che da il titolo al libro: “Io non conoscevo se non rozzamente l’italiano quando per misteriosi impulsi incominciai a confessarmi vocato allo scrivere. Molti mi considerarono solo presuntuoso […] I propositi letterari mi parvero vuoti: meglio conciliavano l’idea del lesso i resoconti sportivi. Tornare al racconto era un’ambizione forse eccessiva”.

In cinquanta anni di professione giornalistica, Gianni Brera ha letteralmente cambiato il linguaggio del calcio. Fu lui a inventare neologismi popolari ormai entrati nel gergo comune come “pretattica”, “cursore” e “centravanti atipico”, senza dimenticare l’adozione del termine “centrocampista” che sostituiva i vecchi ruoli di “intermedio” e “mezz’ala”. Sempre Brera, poi, coniò l’espressione “Derby d’Italia” per indicare la sfida tra la Juventus e l’Inter così come tanti soprannomi come “Abatino” (Gianni Rivera), “Rombo di Tuono” (Gigi Riva) e “Bonimba” (Roberto Boninsegna). Brera inventò anche la divinità del pallone, Eupalla, in quanto il calcio non poteva non avere un riferimento “celeste”: “La dea che presiede alle vicende del calcio ma soprattutto, del bel gioco (dal greco Eu “bene”). Una divinità benevola che assiste pazientemente alle goffe scarponerie dei bipedi”.

Anche a distanza di così tanti anni dalla scomparsa, la sua lezione di giornalismo (ma forse potremmo definirla narrazione sportiva) resta ancora vivida nell’immaginario collettivo. Nessuno come lui ha saputo scrivere e raccontare momenti indimenticabili della nostra storia culturale. Leggiamo, ad esempio, come riuscì a celebrare la leggendaria semifinale Italia-Germania Ovest dell’Azteca: “Ora mi terrorizza l’idea che qualcuno debba scorrere un giorno questo articolo senza capire né poco né punto come si sia svolta la memorabile semifinale Italia-Germania dei mondiali 1970. Retorica ne ho fatta solo a rovescio, giustificando la mia umana impotenza a poetare. Ho dato un’idea di quanto avrebbe meritato lo spettacolo dal punto di vista sentimentale? Bene, non intendo abbandonarmi a iperboli di sorta. Fuori dunque le cifre: e vediamo di interpretarle secondo onestà critica e competenza. Soffoco i miei sentimenti di tifoso con fredda determinazione. Parliamo allora di calcio, non di bubbole isteroidi”.

Egli ha profondamente innovato il linguaggio del calcio con neologismi, definizioni e soprannomi rimasti nella storia anche se questo modo di raccontare il calcio non venne sempre apprezzato e non mancarono duri “contrasti” con alcuni protagonisti della Seria A come Gianni Rivera o Arrigo Sacchi. Ed è paradossale che, specie con il tecnico di Fusignano, definito “un apostolo soggiogato da visioni celesti”, Brera ebbe degli scontri molto accesi. In fin dei conti, erano, a loro modo, due innovatori anche se il grande giornalista pavese era molto legato alle radici profonde della nostra visione del calcio, quel trionfo del calcio “all’italiana” che Arrigo Sacchi, al contrario, non amava più di tanto.

 

Di Simone Morichini





 

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