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Ciclismo

La globalizzazione del ciclismo contemporaneo

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La vittoria iridata di un portoghese, pur rappresentando un unicum nella storia del ciclismo, non è di per sé una cosa così sconvolgente: sin dai tempi di Joaquim Agostinho, infatti, i lusitani vantano una discreta tradizione in questo sport, pur non avendo mai rappresentato una nazione di primissimo piano delle due ruote.

Così come non c’è nulla di strano nel rafforzarsi, corsa dopo corsa, delle ambizioni dei corridori colombiani, eredi di una lunga tradizione di scalatori; ma è innegabile, comunque, che il ciclismo degli ultimi anni stia vivendo una vera globalizzazione, aprendosi a nuovi confini. Fino ancora agli anni ottanta, l’asse di questa disciplina era sostanzialmente europeo con qualche sporadica apparizione proprio colombiana: è poi toccato agli Stati Uniti emergere prima come un piacevole intruso e poi come una potenza nell’equilibrio globale, seguito a ruota, nell’ultimo quindicennio, dall’Australia, che ha sfruttato la propria lunga scuola dei velodromi per far sbocciare grandi talenti tra i velocisti e i cronoman.

Ancora più recentemente, nuovi continenti e nuove nazioni si sono affacciati al panorama ciclistico: a titolo di esempio, Ji Cheng è stato quest’anno il primo corridore cinese ad affrontare il Giro d’Italia. Anche l’Africa sta facendo passi da gigante: sorvolando su Chris Froome, keniota de iure e britannico de facto, non si possono non notare i progressi del movimento sudafricano (Daril Impey, primo africano in maglia gialla al Tour) ed eritreo, con Natnael Berhane brillante al Giro di Turchia e Daniel Teklehaimanot stabilmente nel Pro Tour da un paio di stagioni. In generale, 52 nazioni al via della prova maschile élite di Firenze costituiscono una prova inconfutabile di questo fenomeno: il ciclismo “eurocentrico”, così come lo conoscevamo, non esiste più.

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marco.regazzoni@olimpiazzurra.com

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