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Masters Augusta 2021: il campo e le 18 buche ai raggi X. Si ritorna tra le azalee primaverili

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Il grande golf sbarca sullo storico percorso dell’Augusta National Golf Club per il primo Major stagionale, che pochi mesi dopo l’apparizione autunnale torna nella propria collocazione abituale tra le azalee primaverili. Andiamo ad osservare più da vicino le 18 buche del campo in Georgia (USA), forse il più famoso del mondo.

Buca 1 (Tea Olive, par 4, 407 metri): prende il nome dall’arbusto sempreverde originario della Cina e del Giappone. Apparentemente facile, ha però due punti che fungono da trappola: i bunker a sinistra e di fronte al green, inseriti nel 1951. Sbagliare l’approccio può portare difficoltà con i due putt.

Buca 2 (Pink Dogwood, par 5, 526 metri): il nome deriva da una particolare specie di corniolo, che si origina in Nord America e in Messico. Un tempo c’era un solo ampio bunker davanti al green; nel 1966 è stato rimpicciolito, vent’anni prima se n’è aggiunto un altro. La media dei colpi impiegati per arrivare in buca è di 4.79. Afferma Rickie Fowler: “C’è tanta strategia ad Augusta, ma soprattutto nei par 5”. E non è solo lui a definirla la prima vera opportunità di birdie per tanti.

Buca 3 (Flowering Peach, par 4, 320 metri): è quella della variante floreale del pesco. Così come l’albero originale fu considerato simbolo d’immortalità, questa buca ha il marchio della quasi perfezione impresso, tant’è che è stata modificata poche volte rispetto alle idee di Alister McKenzie e Bobby Jones, gli architetti del percorso. Può capitare di non vedere il green, che va da destra a sinistra. Con sufficiente attenzione i bunker non sono un problema.

Buca 4 (Flowering Crabapple, par 3, 219 metri): nella sostanza è il melo selvatico fiorito, originario dell’Estremo Oriente, che offre il nome a questa buca. Ferro lungo obbligatorio dal tee per arrivare a un green che un tempo aveva una forma somigliante a quella di un boomerang. Jason Dufner la definisce “forse la più difficile buca del percorso, ad essere onesti“.

Buca 5 (Magnolia, par 5, 453 metri): il fiore in questione è tra i più antichi che si conoscano. Nel 2019 c’è stato l’allungamento di una trentina di metri rispetto agli anni passati. La chiave è rimanere a destra con il secondo colpo, pena finire dritti nella coppia di bunker a sinistra. Green ondulato, ma questa caratteristica ad Augusta la si ritrova spesso.

Buca 6 (Juniper, par 3, 165 metri): semplicemente, il nome è quello del ginepro comune, diffuso in tutto il mondo nelle sue 50 e più specie. Il tee shot spiega tutta la difficoltà, perché può succedere di tutto: arrivare nel lato sbagliato di green o colpire in bunker, e in ogni caso rischiare il bogey o con l’uscita dalla sabbia o con i tre putt. Patrick Reed ne sa qualcosa.

Buca 7 (Pampas, par 4, 411 metri): questo nome della buca porta in Argentina, con la celebre erba nota anche come Cortaderia selloana. Cinque bunker, tre davanti e due dietro al green per questo par 4 che è dritto, con un tee shot modificato nel 2002. Deve il suo layout attuale a Horton Smith, due volte campione, che suggerì di rifare il green da cima a fondo.

Buca 8 (Yellow Jasmine, par 5, 521 metri): in questo caso il nome viene da un tipo di gelsomino particolare, diffuso in tutta l’America centrale e parte degli States  (Texas, Virginia). La sfida più importante è superare il bunker a destra a inizio fairway, ma chi si aspetta di raggiungere facilmente il green in due colpi sarà smentito. Brandt Snedeker definisce così il green con grande pendenza a metà: “Diabolico”.

Buca 9 (Carolina Cherry, par 4, 421 metri): la scelta del nome ricade su un sempreverde diffuso su tutta l’area sudest degli Stati Uniti. Si tratta di una delle buche più complesse del percorso, con i suoi tanti avvallamenti un po’ ovunque, come anche nel green. Zach Johnson, che ha vinto nel 2007, definisce il tee shot “scoraggiante”. Il rischio è di vedere i colpi d’approccio al green finire molto lontani dalla bandiera.

Buca 10 (Camellia, par 4, 453 metri): la pianta è originaria dell’Asia ed il nome del genere è da attribuire direttamente a Linneo. Si tratta di un lungo par 4 che ha fatto la storia del Masters, essendo per tradizione la buca più complessa dell’intero percorso. Finendo a destra si gioca un lungo secondo colpo, a sinistra ci sono invece gli alberi. Fino al 1935 è stata la prima buca.

Buca 11 (White Dogwood, par 4, 462 metri): il nome viene dalla Cornus florida, di grande diffusione nella parte est degli Stati Uniti. Comincia qui il cosiddetto Amen Corner, che tante volte è stato decisivo. Il secondo colpo è fondamentale, perché possono dipendere da lì tante fortune. Stewart Cink: “Prima di tutto, fai i conti con la paura. Perché è così che parti“. Nel 1987 Larry Maze giocò un miracoloso chip in che lo aiutò a battere Greg Norman.

Buca 12 (Golden Bell, par 3, 142 metri): il genere di angiosperme delle quali la buca porta il nome si origina in piena Asia. La più corta del percorso, tra le più famose dell’intero panorama del golf: qui, lo scorso anno, Tiger Woods ha iniziato a costruire la propria parabola vincente e Francesco Molinari a calare con un fatale doppio bogey. Il problema è soprattutto legato all’arrivo sul green: Tiger decise di non attaccare la bandiera e ci si ritrovò vicino, Molinari e altri (da Brooks Koepka in giù) lo fecero e si ritrovarono dritti nell’acqua della Rae’s Creek.

Buca 13 (Azalea, par 5, 466 metri): il nome suggerisce da solo cosa ci sia attorno a tee shot, fairway e green: una pianta diffusa in non meno di tre continenti. Il drive di partenza (o, volendo, anche un legno 3) è fondamentale per evitare gli alberi a sinistra e non finire troppo in là verso destra. Al tempo fu facile per McKenzie costruire la buca: bastava metterci semplicemente un green, oltre il quale ci sono quattro bunker e davanti al quale c’è il rischio acqua.

Buca 14 (Chinese Fir, par 4, 402 metri): la curiosità legata al nome è che, sebbene sia da tradurre come “abete cinese”, la pianta non è un abete vero e proprio. Buca totalmente priva di bunker, ha la sua difficoltà nel green, particolarmente ondulato e per questo non facile da affrontare. Stewart Cink l’ha definita una specie di copia della buca 14 a St. Andrews, l’altro tempio per eccellenza del golf mondiale.

Buca 15 (Firethorn, par 5, 485 metri): tradotto, è l’agazzino, molto diffuso in zona eurasiatica. Si tratta della buca che più di ogni altra si presta ai birdie sul percorso. La chiave sta nel far volare la palla oltre il lago, che si trova davanti a un green molto esteso in larghezza. Non è comunque facile raggiungere il green in due colpi.

Buca 16 (Redbud, par 3, 155 metri): l’origine del nome viene da un piccolo arbusto la cui diffusione parte dall’Ontario (Canada). Questa buca, considerato l’enorme lago, è teatro di momenti divertenti durante i giorni di pratica, quando i giocatori si divertono a far rimbalzare la pallina sull’acqua. Tipica l’asta domenicale sotto il gradino che ha permesso alcuni dei più memorabili colpi della storia, dalle buche in uno ad approcci creativi imbucati.

Buca 17 (Nandina, par 4, 402 metri): in questo caso il nome è quello di un noto bambù che è nativo della parte est dell’Asia. Un tempo era caratterizzata dalla presenza dell’albero intitolato a Eisenhower, che però una tempesta di neve ha danneggiato irreparabilmente nel 2014. Arrivare sul green non è difficile, il vero problema è proprio legato all’avvicinamento alla bandiera, perché è in quegli avvallamenti che si trova la parte complessa. Due i bunker intorno al green, ma quello davanti potrebbe non essere poi così malvagio, almeno secondo Kevin Streelman.

Buca 18 (Holly, par 4, 425 metri): il nome viene da una particolare variante di queste celebri piante ornamentali. Jordan Spieth, nel 2018, ha perso qui le residue speranze di agganciare Patrick Reed. Due bunker a sinistra del fairway ed altrettanti intorno al green possono risultare molto importanti, soprattutto nel caso in cui si dovesse arrivare con margini molto stretti alla fine.

Foto: LaPresse

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